Divisi sul dopo crisi

Bernanke ha paura dell’inflazione, Trichet teme la frammentazione

di Mario Seminerio – © LiberoMercato

Nei giorni scorsi è circolata la notizia di un approccio della Federal Reserve presso il Congresso, per valutare la possibilità (ad oggi preclusa dalla legge) che la banca centrale statunitense possa emettere propri titoli di debito fruttiferi. Secondo gli analisti, questa eventualità avrebbe soprattutto l’obiettivo di modificare la composizione delle passività della banca centrale, ad evitare che, quando la ripresa economica si manifesterà, possa verificarsi una devastante fiammata inflazionistica. Pare singolare discutere di inflazione proprio nelle settimane in cui va formandosi un preoccupato consenso sul rischio di deflazione. Ma la natura e le implicazioni di questa crisi epocale portano con sé anche rischi molto eterogenei e potenziali rovesciamenti di scenario. Per valutare la mossa della Fed occorre comprendere che, storicamente, le riserve detenute dalle banche statunitensi presso la banca centrale sono ammontate ad una cifra compresa tra i 5 e i 10 miliardi di dollari. Oggi, sono pari a 650 miliardi e la recente decisione di Bernanke di procedere ad acquisti a titolo definitivo di mutui ipotecari e cartolarizzazioni aggiungerà non meno di altri 800 miliardi di dollari al totale.

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Sull’Italia pesa il debito pensionistico

di Mario Seminerio – © LiberoMercato

Giorni addietro, in un’intervista concessa ad un quotidiano, il presidente del Consiglio ha enfatizzato la capacità di risparmio degli italiani, che metterebbe il paese in condizioni relativamente migliori rispetto a molti dei nostri principali competitori internazionali. In particolare, come rimarcato dall’intervistatore, il debito aggregato dell’Italia, ottenuto sommando debito pubblico e debito delle famiglie, ci porrebbe in condizioni finanziarie complessivamente migliori rispetto a paesi come il Regno Unito che, prima dell’attuale crisi, godevano di alti voti di affidabilità da parte di mercati e agenzie di rating. E proprio riguardo quest’ultimo aspetto, il premier nell’intervista ratificava il suggerimento di promuovere un cambiamento dei criteri utilizzati dalle agenzie di rating per includere il debito del settore privato, a noi più favorevole. Si tratta di un’ipotesi suggestiva, ma purtroppo dotata di scarsa efficacia. Vediamo il perché.

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Il piano italiano anti crisi

Sostegni alla liquidità più che stimoli espansivi

di Mario Seminerio – © LiberoMercato

Un numero crescente di governi sta ricorrendo alla politica fiscale per sostenere le proprie economie, a causa della ridotta efficacia delle politiche monetarie in un contesto di violenta e rapida riduzione della leva finanziaria. Ed è nell’ambito di questo scenario che la Commissione Europea, la scorsa settimana, ha annunciato alcune proposte di stimolo fiscale per l’Europa. E’ importante evidenziare che la Commissione non è un’autorità fiscale federale; né che l’attuale assetto della Ue prevede forme di effettivo federalismo fiscale. Dalla crisi nasce quindi un forte spunto di riflessione per compiere ulteriori passi in direzione dell’Unione politica, da cui deriverebbe una politica fiscale comune. In attesa che tale sogno (o incubo, per alcuni) si avveri, è utile altresì ricordare che la Commissione non dispone autonomamente delle risorse per stimolare la domanda, né ha il potere di costringere i governi nazionali a fare qualcosa che essi non intendono fare.

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La minaccia dell’Islam(?)/2

di Andrea Gilli

A pochi giorni dalla fine degli scontri di Mumbai, la retorica anti-islamica ha raggiunto picchi onestamente inimmaginabili. In un precedente articolo avevamo cercato di contrastarla, ma a quanto pare l’onda è cresciuta in maniera smisurata. Poiché ci è impossible contro-argomentare a tutti i miti spacciati in questi giorni per verità soverchianti, ci soffermiamo su un unico solo punto: la presunta aggressività storica dell’Islam.

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La minaccia dell’Islam (?)

di Andrea Gilli

Con i recenti attacchi di Mumbai, alcuni osservatori hanno cercato di rinvigorire una vulgata oramai abbastanza frusta che vedrebbe nell’Islam la vera minaccia alla nostra libertà e alla nostra sicurezza. Crediamo che questi miti vadano sfatati.

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La lobby GM fallisca

di Mario Seminerio – © Libero Mercato

Mentre General Motors e gli altri costruttori automobilistici statunitensi continuano a bruciare liquidità a ritmi infernali, il dibattito sul salvataggio dell’industria si polarizza sempre più. Da un lato, i sostenitori di un intervento pubblico che impedisca la distruzione di alcuni milioni di posti di lavoro, diretti e indotti; dall’altro i critici di un modello di business, quello di General Motors, basato da sempre su poderose relazioni lobbystiche che suppliscono alla scarsa comprensione delle dinamiche competitive globali. Nel mezzo, i costruttori europei, che temono non solo e non tanto un effetto di spiazzamento delle proprie produzioni causato dal soccorso pubblico americano, ma anche l’inizio di una corsa alla protezione dei campioni nazionali dell’auto, da cui tutti usciremmo perdenti.

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Come il federalismo fiscale può salvare il Mezzogiorno

di Redattori Epistemes

In “Come il federalismo fiscale può salvare il Mezzogiorno” (edito da Rubbettino), Piercamillo Falasca e Carlo Lottieri perorano la causa del federalismo come unica possibilità di riscatto per il Sud d’Italia. Da palla al piede a tigre mediterranea? Difficile, ma con l’ottimismo della volontà è probabilmente l’ultima cartuccia che il Mezzogiorno d’Italia può ancora sperare di utilizzare.

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Rischiano anche i conti degli stati

di Mario Seminerio – © Libero Mercato

Da quando il piano Paulson è diventato legge, lo scorso 3 ottobre, il rischio sovrano degli Stati Uniti, così come misurato dai credit default swaps, è cresciuto  di quasi il 40 per cento, pur partendo da livelli pressoché trascurabili, e si trova ora allo stesso livello in cui si trovavano quelli messicano e thailandese nell’estate 2007, all’inizio della crisi dei mutui subprime. La scorsa settimana, due aste di titoli governativi (il decennale tedesco ed il trentennale americano) sono andate piuttosto male, in termini di rapporto tra domanda e offerta, e dispersione dei rendimenti richiesti dagli investitori. Inoltre, all’ultima asta del decennale statunitense i cosiddetti indirect bidders – una classe di investitori che include le banche centrali – hanno sottoscritto solo il 18 per cento dell’emissione, contro il 43 per cento dell’asta precedente.

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