Rischiano anche i conti degli stati

di Mario Seminerio – © Libero Mercato

Da quando il piano Paulson è diventato legge, lo scorso 3 ottobre, il rischio sovrano degli Stati Uniti, così come misurato dai credit default swaps, è cresciuto  di quasi il 40 per cento, pur partendo da livelli pressoché trascurabili, e si trova ora allo stesso livello in cui si trovavano quelli messicano e thailandese nell’estate 2007, all’inizio della crisi dei mutui subprime. La scorsa settimana, due aste di titoli governativi (il decennale tedesco ed il trentennale americano) sono andate piuttosto male, in termini di rapporto tra domanda e offerta, e dispersione dei rendimenti richiesti dagli investitori. Inoltre, all’ultima asta del decennale statunitense i cosiddetti indirect bidders – una classe di investitori che include le banche centrali – hanno sottoscritto solo il 18 per cento dell’emissione, contro il 43 per cento dell’asta precedente.

Sono tutti episodi che suscitano qualche timore circa la capacità del sistema finanziario globale di assorbire l’imponente mole di titoli governativi in emissione per finanziare il salvataggio dei sistemi creditizi nazionali. L’emissione di di titoli del Tesoro statunitense è attesa toccare livelli record, compresi tra 1400 e 1750 miliardi di dollari, nell’anno finanziario 2009, iniziato in ottobre. Anche in Europa l’emissione di titoli governativi dovrebbe raggiungere il massimo storico di 1000 miliardi di euro il prossimo anno. Malgrado questa imponente crescita dell’indebitamento atteso, i rendimenti sui titoli di stato sono previsti in ulteriore calo, a causa della pessima condizione economica generale e del mercato azionario, oltre che dei rischi di disinflazione/deflazione che questa fase porta con sé.

Ma i rischi per il finanziamento dello stock di debito restano, e sono destinati ad aumentare. Sul piano contabile ed economico, se un governo inietta capitale in un banca (per prevenirne il fallimento e compensare le perdite passate e future), affinché l’operazione si chiuda in pareggio occorre che il ritorno atteso da questo investimento sia pari al costo del debito pubblico. Se il rendimento del salvataggio è inferiore al “costo del capitale” per il governo, occorre che la differenza sia recuperata attraverso futuri surplus di bilancio, cioè tagli di spese e/o aumenti di entrate. Se ciò non si dovesse verificare, il deficit e lo stock di debito sarebbero destinati ad aumentare, e con essi il rischio sovrano. Oggi, l’aumento degli spread dei credit default swap su emittenti nazionali segnala esattamente questo: un deterioramento di non breve periodo delle condizioni di finanza pubblica dei paesi coinvolti nei salvataggi delle proprie economie.

Il rischio è che, sotto la pressione della crisi e delle richieste provenienti da settori economici e gruppi d’interesse, i governi finiscano con l’attuare una forte espansione di spesa pubblica al solo scopo di impedire che il doloroso ed inevitabile aggiustamento si compia. E’ utile ricordare, pur con tutti i caveat relativi ad un confronto del genere, che la Svezia salvò il proprio sistema creditizio a prezzo di due anni di recessione durissima, ma la sua successiva ripresa fu molto sostenuta. Nel caso degli Stati Uniti, che non sono avvezzi a soffrire per l’economia, c’è il fondato timore che la disordinata serie di salvataggi pubblici a vantaggio di istituzioni finanziarie (e in futuro, verosimilmente, di settori industriali) non sempre meritevoli finisca col distruggere risorse fiscali e ridurre il potenziale di crescita di lungo periodo dell’economia americana, generando una ripresa a forma di L (cioè una stagnazione) di cui pagherebbe il conto l’economia mondiale. I mercati stanno già cominciando a valutare la sostenibilità fiscale dei salvataggi, con un occhio ai fondamentali economici e l’altro ai rapporti di forza geopolitica.

Dall’inizio degli anni Duemila il rovescio della medaglia degli squilibri macroeconomici americani è stato dato dall’eccesso di risparmio dei paesi emergenti, soprattutto asiatici. E’ il cosiddetto “global savings glut”, l’eccesso di risparmio, che ha permesso di mantenere bassi i tassi statunitensi, rinviando la resa dei conti. Già oggi vi sono evidenti segni di minore disponibilità dei paesi emergenti a proseguire questa operazione di credito agevolato: i fondi sovrani verranno presto chiamati a sostenere l’espansione fiscale dei propri paesi, necessaria ad attutire il crash delle esportazioni negli Stati Uniti. Si prefigura, quindi, uno sbilancio di non breve durata tra offerta e domanda di fondi globali. E anche se per gli Stati Uniti l’ipotesi del dissesto appare oggi remota, esiste il non trascurabile rischio che una ripresa economica persistentemente anemica finisca con l’essere mantenuta tale dall’onere del servizio del debito pubblico. Uno scenario italiano, quindi. Per questo motivo occorre che la nuova amministrazione Obama persegua (anche vigorosamente) lo stimolo fiscale nel breve periodo, ma in forme tali da preservare crescita della produttività e solvibilità di lungo periodo dell’economia americana.

Riguardo i paesi di dimensioni e massa critica inferiore a quella degli Stati Uniti, il Regno Unito si trova in condizioni problematiche: con il vero rapporto tra debito pubblico e Pil probabilmente già oltre il 100 per cento e col massiccio deficit del settore pubblico, in parte ciclico ed in parte strutturale, che sta per materializzarsi, i mercati finiranno col mettere in dubbio con sempre maggiore veemenza la sostenibilità fiscale del programma di salvataggio del governo Brown. I titoli di stato sono poi destinati a entrare in una fase di aperta competizione con il debito delle proprie istituzioni finanziarie, che hanno ormai garanzia sovrana ma offrono rendimenti più elevati. Ed il problema riguarda l’intera Europa: con 1600 miliardi di euro di emissioni bancarie a garanzia pubblica previste per il prossimo anno, potrebbe esservi un significativo impatto sull’appetito degli investitori per i titoli governativi.

Entro Eurolandia, i paesi con rating inferiore e condizioni di finanza pubblica più problematiche (come l’Italia) potrebbero soffrire, come già testimoniato dal forte aumento del differenziale di rendimento tra Btp e Bund. E questo anche se il nostro paese dovesse uscire relativamente indenne dall’ondata di ricapitalizzazioni a beneficio del settore creditizio. E l’assenza di un fondo europeo di stabilizzazione, per  la forte resistenza di paesi fiscalmente virtuosi come la Germania (che non intendono offrire pasti gratis a chi è stato in passato meno disciplinato), impone un grande sforzo di gestione e riqualificazione della spesa pubblica del nostro paese, ad evitare il rischio che la disaffezione degli investitori istituzionali nei confronti del nostro debito pubblico finisca col provocare forti aumenti del costo del servizio del debito. Sono gli effetti a catena e a cascata di questa crisi epocale, destinata a segnare la fine del mondo che conosciamo.


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