di Mario Seminerio – © Libero Mercato
Mentre General Motors e gli altri costruttori automobilistici statunitensi continuano a bruciare liquidità a ritmi infernali, il dibattito sul salvataggio dell’industria si polarizza sempre più. Da un lato, i sostenitori di un intervento pubblico che impedisca la distruzione di alcuni milioni di posti di lavoro, diretti e indotti; dall’altro i critici di un modello di business, quello di General Motors, basato da sempre su poderose relazioni lobbystiche che suppliscono alla scarsa comprensione delle dinamiche competitive globali. Nel mezzo, i costruttori europei, che temono non solo e non tanto un effetto di spiazzamento delle proprie produzioni causato dal soccorso pubblico americano, ma anche l’inizio di una corsa alla protezione dei campioni nazionali dell’auto, da cui tutti usciremmo perdenti.
General Motors nel terzo trimestre ha riportato una perdita di 2,5 miliardi di dollari, o 4,45 dollari ad azione, segnalando disponibilità liquide al 30 settembre per 16,2 miliardi di dollari, contro i 21 miliardi alla fine di giugno, ed un fabbisogno mensile di 11 miliardi di dollari, dopo aver accumulato dal 2004 perdite per 73 miliardi di dollari. Con questa traiettoria, senza intervento pubblico la compagnia difficilmente doppierà la boa del nuovo anno. Secondo il CEO, Rick Wagoner – che continua a ribadire in modo piuttosto sconcertante la necessità di preservare l’attuale management – l’unica via è un prestito governativo simile a quello che salvò Chrysler un trentennio fa. A suo giudizio, l’amministrazione straordinaria fornita dal Chapter 11 avrebbe invece “effetti devastanti” sull’azienda, sia perché il credit crunch ha pressoché inaridito l’erogazione dei “debtor-in-possession loans”, i prestiti erogati alle imprese in ristrutturazione controllata, sia perché porre in Chapter 11 un produttore di beni durevoli di consumo di così elevato valore unitario finirebbe con lo spaventare i consumatori, timorosi che la società possa finire in liquidazione e le loro auto siano private di valore residuo di mercato e di assistenza post-vendita. Per questo motivo, secondo Wagoner ed i lobbysti del settore auto, sarebbe preferibile un nuovo prestito federale, magari condizionato a qualche ristrutturazione energy-saving di impianti e modelli. Altri osservatori, più neutrali, hanno ipotizzato una qualche forma di variazione su questo tema: ad esempio, ricorrere a forme di swap tra debito e capitale azionario, con sacrifici pesanti chiesti agli obbligazionisti, che vedrebbero il valore nominale dei loro bond abbattuto all’attuale valore di mercato, ed oltre.
I problemi di General Motors e degli altri due costruttori statunitensi sono noti, e sono riconducibili a due grandi tipologie: deficit di visione strategica globale e oneri imposti dal sistema-paese statunitense. Riguardo i secondi, nei giorni scorsi ha fatto molto rumore il dato sul differenziale di costo del lavoro tra un dipendente GM ed uno Toyota (o Nissan, o Honda) operante in impianti localizzati negli Stati Uniti. Settanta dollari orari il primo, una trentina il secondo. In realtà, quel differenziale non deriva dal salario degli addetti alle linee di montaggio (che è sostanzialmente allineato a circa 28 dollari l’ora), bensì soprattutto dagli oneri sanitari e previdenziali che i costruttori americani sostengono a favore di propri dipendenti, pensionati e loro coniugi superstiti. Già da un paio d’anni la società si è spostata dagli onerosi piani pensionistici a prestazioni definite ai cosiddetti 401(k), dove il rischio grava interamente sul lavoratore, in caso di andamenti sfavorevoli di mercato. Anche sui piani sanitari, in attesa del loro ridisegno complessivo per mano dell’Amministrazione Obama, le aziende statunitensi hanno tentato di contenere i costi, con aumento di franchigia e della quota di compartecipazione alla spesa da parte dell’assicurato. Ma per i costruttori di auto lo squilibrio è rimasto e si è aggravato, a causa di grossolani errori strategici, e di un forte legame con il potere politico. Un dato su tutti: tra il 1998 e il 2007 General Motors ha investito nel proprio core business 310 miliardi di dollari; nel corso di questo periodo l’ammortamento degli impianti è stato pari a 128 miliardi di dollari; il che significa che, nell’ultimo decennio, 182 miliardi di dollari di capitale netto sono stati pompati in GM, circa 1,5 miliardi di dollari al mese. Per Ford i dati sono simili: 155 miliardi di investimento lordo, 8 miliardi di ammortamenti. Alla fine del 1998, la capitalizzazione di mercato di GM era di 46 miliardi di dollari, quella di Ford di 71 miliardi. Oggi le due società sono sull’orlo della bancarotta, le loro azioni sono ridotte a penny stocks, e saranno presto rimosse dai principali indici azionari. Che ne è stato di questi 465 miliardi di dollari? Con quella somma, per paradosso, GM e Ford avrebbero potuto chiudere i propri impianti e trasformarsi in una holding automobilistica planetaria, comprando tutte le azioni di Honda, Nissan, Toyota e Volkswagen. Hanno invece scelto di diversificare in modo disastroso, tentato alleanze mal concepite (vedi il collasso di DaimlerChrysler e la successiva scissione nelle due società costitutive), oppure di assumere dimensioni così elefantiache da poter invocare, come sta facendo Wagoner, il solito mantra del “troppo grande per fallire”, prendendo in ostaggio dipendenti, pensionati, consumatori e fisco.
Che fare, quindi? Per il Congresso a maggioranza Democratica Detroit è un simbolo, quasi un feticcio: difenderne ad ogni costo la sopravvivenza potrebbe assumere un valore ideologico. E certo le stime spaventose ed interessate di una distruzione di 2,5 milioni di posti di lavoro (concentrati peraltro in alcuni stati) proprio nel momento della più grave crisi economica dagli anni Trenta, rendono difficile valutare in modo non emotivo la gestione del salvataggio. Ma la presidenza Obama si presenta come fortemente innovativa ed intenzionata a ristrutturare l’intero paese, portandolo fuori dalle sue contraddizioni e da un modello di sviluppo che si è dimostrato insostenibile. Difficile pensare che una legge di “riconversione ecologica”, magari scritta sotto dettatura di Wagoner e soci, possa risolvere il problema. Allo stesso modo, per non incorrere nella “sindrome italiana” dell’assistenzialismo improduttivo che tiene in vita aziende decotte, sarebbe forse meglio dividere i 25 miliardi di dollari di aiuti già stanziati tra tutti i 2,5 milioni di lavoratori minacciati di licenziamento: farebbero 10.000 dollari a testa. La parte del vuoto di offerta causato dalla scomparsa di uno o due costruttori di Detroit sarebbe colmata dai produttori efficienti rimasti, come dovrebbe avvenire in un’economia di mercato degna di questo nome, ed i fondi per il salvataggio potrebbero essere destinati a supporto di welfare per chi ha perso il lavoro e deve riqualificarsi, oltre che per le comunità colpite dalla crisi.
Ma anche senza giungere a questi auspicabili “estremi”, resta l’opportunità di una effettiva ristrutturazione del modello economico degli Stati Uniti in direzione di maggiore competitività globale e minore sfruttamento dei contribuenti. Un modello che potrebbe essere esportato anche da noi. Per contro, se prevarranno le vecchie logiche lobbystiche ed i protezionismi che esse portano con sé, ci attendono tempi decisamente grami.
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