Il futuro europeo del welfare americano

di Mario Seminerio

Gli amministratori della Social Security (il sistema previdenziale americano) e del Medicare hanno pubblicato questa settimana il rapporto annuale sulle condizioni finanziarie dei due programmi di spesa federale. Il Medicare quest’anno sarà in deficit, cioè avrà esborsi per prestazioni in eccedenza su quanto riceve dalla fiscalità. Tutti gli americani pagano contributi sociali sulla busta paga pari al 2,9 per cento per il Medicare, ripartiti a metà tra lavoratore e datore di lavoro. Il saldo finanziario della Social Security è ancora in attivo, ma è atteso entrare in deficit nel 2016. La Social Security è finanziata al 12,4 per cento della retribuzione lorda, anche in questo caso ripartita paritariamente tra lavoratore (fino ad un tetto retributivo indicizzato all’inflazione)  e datore di lavoro.

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Quel fallimento “forzato” di Obama

di Mario Seminerio – © Liberal Quotidiano

Giovedì scorso a New York Chrysler ha presentato richiesta di ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria nota come Chapter 11, comunicando di voler vendere i propri asset principali, inclusi i marchi Chrysler, Jeep e Dodge, ad una nuova compagnia destinata ad essere posseduta dai governi di Stati Uniti e Canada, da Fiat e dai lavoratori della società, riuniti nella United Auto Workers, tramite il fondo VEBA. La procedura prescelta (formalmente dall’azienda ma di fatto dalla Casa Bianca) ha sollevato l’opposizione di alcuni hedge funds e fondi d’investimento, ma anche fondi pensione ed endowment funds di college, che si trovavano nella condizione di creditori privilegiati (secured) perché, secondo questi investitori, l’azienda intende invertire l’ordine di priorità nel pagamento dei debiti societari, subordinando i creditori privilegiati a quelli ordinari, tra i quali vi è il sindacato, che avrà il 55 per cento della nuova Chrysler, dopo il rifiuto dei creditori privilegiati ad accettare rimborsi in via extragiudiziale pari a soli 29 centesimi per dollaro.

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La Turchia in Europa? Perchè Washington insiste tanto

di Andrea Gilli

Se l’era Obama si è aperta con una serie di radicali svolte in politica estera (dall’Iran a Cuba, dall’Afghanistan al Venezuela), su alcune questioni la Casa Bianca non ha deciso di modificare il corso precedente. Una di queste è la Turchia e il suo rapporto con l’Unione Europea.

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E’ troppo presto per parlare di ripresa

di Mario Seminerio  – © Liberal Quotidiano

Il forte rally delle quotazioni azionarie globali, in atto da alcune settimane, ed alcuni dati macroeconomici meno peggiori delle attese, stanno contribuendo alla formazione di aspettative di stabilizzazione del quadro economico. Si tratta di attese diffuse anche in Europa, dove fino a non molto tempo addietro si riteneva che la congiuntura fosse destinata ad aggravarsi significativamente rispetto agli Stati Uniti, essenzialmente per il minore impiego di risorse fiscali nello stimolo della congiuntura, per i limiti statutari e politici ai margini di manovra della Banca Centrale Europea, oltre che per la prossimità con un’area (quella dell’Europa Orientale) che rappresenta un fondamentale mercato per i paesi Ue, e che sta vivendo una crisi drammatica causata dal deflusso di capitali occidentali e da indebitamento di famiglie ed imprese in valute forti (euro e franchi svizzeri).

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Perché la caccia ai paradisi fiscali

di Mario Seminerio

Il tentativo, promosso soprattutto dagli europei (segnatamente da Francia e Germania: per scoprire il perché, munirsi di una carta geografica e trarre le inferenze del caso) di ridurre il grado di legittimità ed i margini di manovra dei cosiddetti paradisi fiscali (attraverso la classificazione dei paesi in gruppi, in funzione del grado di “cooperazione” fiscale internazionale), tende ad essere interpretato come una decisione puramente populistica, oltre che priva di un qualsivoglia legame con la crisi in atto. Le cose non stanno esattamente in questi termini.

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La politica estera di Obama

di Mauro Gilli

Le recenti scelte in politica estera dell’Amministrazione Obama hanno suscitato una certa sorpresa – e in molti casi sgomento – tra gli osservatori. A fronte delle grandi aspettative sulla capacità del presidente in persona di restituire all’America un’immagine positiva a livello internazionale, Obama si è trovato a dover prendere delle decisioni in palese contrasto con due dei pilastri fondanti della società americana: la convinzione che sia dovere degli Stati Uniti trasformare le altre società, promuovendo diritti umani, democrazia e libero mercato; e, dall’altra parte, l’idea che l’America sia un paese che non si arrende di fronte ai nemici, e che è disposta a pagare ogni prezzo per raggiungere i suoi obiettivi.

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Geithner, una vittoria di Pirro?

di Mario Seminerio –  © Liberal quotidiano

Del nuovo programma di rimozione degli attivi tossici dal bilancio delle banche statunitensi (PPIP, Public Private Investment Partnership) si è scritto molto, ma non tutto. Il programma, magnificato dal Segretario al Tesoro, Timothy Geithner, e dal vero dominus della politica economica obamiana, Larry Summers (direttore del Consiglio Economico della Casa Bianca) come momento di price discovery, cioè di attivazione di un autentico meccanismo di mercato per la determinazione del prezzo “reale” degli attivi problematici, è in realtà un gigantesco trasferimento di risorse fiscali dai contribuenti agli azionisti delle banche, ed agli investitori. Senza entrare nelle tecnicalità della procedura, è utile ricordare che il finanziamento offerto dalla FDIC, l’ente federale di assicurazione sui depositi, si basa sulla clausola no-recourse. In altri termini ciò significa che, in caso il titolo tossico si riveli tale, il debitore-investitore potrà semplicemente dichiarare default sulla transazione ed andarsene.

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