La Turchia in Europa? Perchè Washington insiste tanto

di Andrea Gilli

Se l’era Obama si è aperta con una serie di radicali svolte in politica estera (dall’Iran a Cuba, dall’Afghanistan al Venezuela), su alcune questioni la Casa Bianca non ha deciso di modificare il corso precedente. Una di queste è la Turchia e il suo rapporto con l’Unione Europea.

Nella sua recente visita in Europa, il presidente americano ha sollecitato l’EU a far entrare la Turchia nell’Unione Europea.

Il fronte europeo è abbastanza scomposto su questo tema. I pro-americani laici sono favorevoli e credono, non si capisce bene su quali basi, che se la Turchia entrasse in Europa, il Paese rafforzerebbe la sua laicizzazione – e in questa maniera scongiureremmo possibili problemi futuri.

Dall’altra parte, i pro-americani religiosi, si dimenticano per una volta il loro sostegno a Washington e dicono che mai la Turchia entrerà nell’UE. La sua religione islamica, a loro dire, sarebbe in contraddizione con i nostri valori e dunque Ankara favorirebbe l’islamizzazione dell’Europa. Come mai costoro non si oppongano, con altrettanta forza, ad eventuali ingressi nell’UE di paesi con significative minoranze islamiche quali Bosnia, Albania o Macedonia non è facile capirlo.

Poi vi sono gli anti-americani cosmopoliti. Per costoro, pur opponendosi alle presunte politiche discriminatorie e unilaterali americane, la posizione della Casa Bianca è saggia. Nella loro ottica, l’UE sarebbe un tentativo embrionale di emancipare la società civile globale. Dunque l’UE avrebbe una sorta di dovere morale ad espandersi a dismisura per risvegliare e illuminare tutti i popoli del mondo: l’allargamento alla Turchia sarebbe dunque una normale evoluzione di questo processo. Come mai molti di costoro si oppongano all’ingresso di Israele nell’UE rimane un mistero dal vago sapore contraddittorio.

Infine, vi sono gli anti-americani geopolitici i quali sostengono che l’Europa non dovrebbe farsi dettare il suo percorso dall’America e soprattutto che la Turchia è un Paese allineato a Washington – dunque il suo ingresso nell’UE equivarrebbe a far entrare il famoso cavallo attraverso le porte della città di Troia. Rimane da capire, in primo luogo, quanto sia realmente allineato a Washington un Paese come la Turchia, che negli ultimi 7 anni è cambiato alla radice. Senza contare poi, che se un cavallo c’è stato, quello è rappresentato dall’ingresso della Gran Bretagna (1973) prima, e dell’Est Europa (2004) poi.

In questo articolo non sposiamo nessuna di queste posizioni. Piuttosto ci preme sottolineare le ragioni americane. L’America, seppur scossa da una gravissima crisi economica, finanziaria, sociale e culturale, rimane il Paese più forte al mondo. Sotto tutti gli indicatori, dalla produzione industriale al reddito pro-capite, dalle capacità militari alle dotazioni naturali, Washington rimane in vetta.

Negli ultimi anni, però, la sua corsa ha osservato, attraverso lo specchietto retrovisore, l’arrivo di numerosi contendenti. Attori che non possono mirare a prendere il posto dell’America negli affari mondiali, ma che possono rubarle la scena nei vari campi regionali. La Russia in Asia Centrale e nel Caucaso, l’Iran in Medio Oriente, il Brasile in Sud America, la Cina in Asia e in Africa.

L’Europa, parallelamente, ha osservato una rapida accelerazione del suo processo di integrazione. Nel 1992 nasceva la moneta unica, nel 2002 entrava nei portafogli dei cittadini, nel 2009 la Banca Centrale Europea dimostra di essere il più saggio organismo monetario del pianeta. Nel 1998 Blair e Chirac si incontravano a Saint-Malo per discutere di politica di sicurezza europea, nel 2008, l’Unione Europea è in grado di portare a termine missioni militari indipendenti in Chad, Congo, Macedonia e addirittura intervenire in Somalia.

Il cammino europeo è certo lento e tortuoso, ma è un cammino sicuro e vincente. Se la Turchia entrerà in Europa, Washington continuerà a confrontarsi con un’istituzione internazionale debole e tanti stati di medie dimensioni nel panorama internazionale. L’ingresso della Turchia infatti scombussolerà le carte di tutti i delicati equilibri europei, determinerà un forte shock istituzionale e rallenterà (ma forse è giusto dire ucciderà) le speranze di creare uno stato unico in Europa. Lo shock causato dal recente allargamento all’Est Europeo docet. Senza contare quanto dirompente sarà la presenza di interessi economici, strategici e politici così divergenti: Germania e Francia hanno avuto bisogno di cinquant’anni per trovare un assetto stabile alla loro rapporto. Si pensi quanto ci vorrà per trovare la “quadra” tra la Turchia e l’Europa continentale.

Dall’altro canto, se la Turchia non entrerà in Europa, è più facile pensare che il cammino europeo si concluda con la costruzione di un’entità quanto più vicina ad uno stato moderno. Uno stato, inoltre, con 420 milioni di persone, il più grande mercato interno mondiale, la seconda industria della difesa al mondo, la seconda valuta internazionale di riferimento e così via. Uno stato forte, insomma. Con il quale Washington non ha alcun interesse a volersi confrontare, specie nel momento nel quale altri stati “forti” (Cina, Russia, India, Brasile) si affacciano sulla scena mondiale.

A chi guarda con scetticismo questa interpretazione si può porre un semplice quesito. Se l’Europa spingesse per far entrare il Messico negli Stati Uniti, al di là dell’ovvia risposta che giungerebbe da Washington, bisognerebbe interrogarsi sulle sue motivazioni. Favorire l’integrazione del Messico con gli Stati Uniti o, più verosimilmente, dare una bella gatta da pelare a Washington che così, anzichè occuparsi degli affari mondiale, sarebbe costretta a risolvere una sfida interna di portata mastodontica.

In definitiva, i presidenti cambiano, gli interessi dei Paesi restano. E l’interesse degli Stati Uniti continua ad essere un’Europa divisa incapace di svolgere un ruolo di primo piano a livello internazionale.

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