I rating che fanno paura sono già superati

di Mario Seminerio – Il Tempo

Il declassamento di due livelli del merito di credito sovrano dell’Italia, comunicato nei giorni scorsi dall’agenzia Moody’s, ha avuto effetti ampiamente divergenti: la levata di scudi pressoché unanime della politica, la sostanziale indifferenza dei mercati. E già questo è sintomo della scarsa capacità di comprensione della realtà dei mercati finanziari da parte di quanti, per “mestiere”, dovrebbero possedere doti non comuni di lettura di quanto avviene e condiziona la vita di un paese.

L’azione di Moody’s era di fatto attesa, visto che sul nostro paese l’agenzia manteneva un outlook (cioè delle prospettive) negativo, condizione che molto spesso tende a risolversi in un effettivo declassamento. Quindi, decisione non “telefonata”, ma quasi. Il mercato non ha reagito, ed anzi ha consentito l’effettuazione di un’asta di Btp con risultati complessivamente positivi. Anche questo è un déjà-vu: lo stesso accadde a maggio, a seguito di identica azione di declassamento da parte di Standard & Poor’s. Se si osservasse l’altro dato di mercato, quello relativo ai credit default swap, cioè alle “assicurazioni” contro il dissesto di un emittente di titoli di debito, si comprenderebbe il motivo di questo non-evento: i livelli delle “polizze” sul default esprimono rating impliciti ben più bassi degli attuali. Quindi, i giudizi delle agenzie dovrebbero essere visti soprattutto come una sorta di tardiva certificazione dell’esistente.

Un altro luogo comune duro a morire, quando si giudica l’azione delle agenzie di rating, è la critica della loro presunta incapacità a comprendere ed analizzare la realtà. Questo è un nonsenso sul piano logico: se si è intimamente convinti che le agenzie sbaglino valutazione, la non reazione dei mercati dovrebbe suonare come conferma della bontà della tesi, e far propendere per una sana indifferenza rispetto alla loro azione.

Altro ormai stucchevole luogo comune, nel dibattito politico-editoriale di casa nostra, è quello riferito alle agenzie che “assegnavano a Lehman il rating massimo, prima del suo fallimento”. Le cose non stanno esattamente in questi termini, sotto più aspetti. In primo luogo, il rating di Lehman, per Moody’e S&P, era di singola A il giorno prima del collasso del broker statunitense. Che non è una valutazione-spazzatura, ma neppure è il “voto massimo” di cui si favoleggia. In secondo luogo, Lehman è stata letteralmente “fatta morire” dal rifiuto delle autorità economiche statunitensi a consentirle l’accesso a forme alternative di credito visto che la società, non essendo una banca, si finanziava a brevissimo termine (anche giornaliero), ed ha visto scomparire liquidità e creditori letteralmente nel giro di poche ore. La fine o la sopravvivenza di Lehman erano un esito “binario” nelle mani della politica: difficile che le agenzie potessero prevedere tempestivamente gli eventi, ma il deterioramento del merito di credito era stato registrato.

Ancora: Lehman era una società privata, che richiedeva alle agenzie di rating un giudizio sul proprio merito di credito, pagando la prestazione, con tutto ciò che ne deriva in termini di conflitti d’interesse delle agenzie, potenziali ed effettivi. I rating sovrani, invece, sono “unsolicited”, cioè non richiesti dagli emittenti, e si basano dichiaratamente su informazioni di pubblico dominio che concorrono a plasmare “opinioni” sull’evoluzione del merito di credito di un paese. In essi, quindi, la componente soggettiva è dominante, ed i mercati si sono accorti anche di questo. Anche azioni giudiziarie contro le agenzie faranno enorme fatica a dimostrare la manipolazione del mercato, visto che il mercato praticamente non reagisce più agli annunci delle agenzie: la logica dovrebbe avere ancora un qualche valore, anche nelle aule dei tribunali italiani. Il vero problema, con le agenzie, è che i loro giudizi servono ancora ad investitori “pigri” per definire ciò che può essere messo in portafoglio e cosa no, secondo un giudizio sintetico estremo. Ma questa fase storica sta lentamente ma inesorabilmente sancendo il declino per irrilevanza delle agenzie. Dovremo fatalmente trovarci un altro “uomo nero” da incolpare.

Un elemento che non dovrebbe invece sfuggire al senso comune (ed infatti non sfugge ai mercati, che ormai lo scontano da tempo, e pende sulle nostre teste) è la valutazione di Moody’s molto simile a quella di Standard & Poor’s di mesi addietro: in Eurozona esiste un grave pericolo di contagio, che tende ad aumentare col passare del tempo e delle azioni non risolutive delle autorità europee. Già a gennaio S&P, nel motivare il declassamento di allora, aveva usato una frase profetica, alla luce di quanto accaduto in seguito:

«E’ nostra opinione che le limitazioni alla flessibilità monetaria imposte dall’appartenenza all’Eurozona non siano adeguatamente controbilanciate da altre politiche economiche per evitare l’impatto negativo sul merito di credito che i membri dell’Eurozona stanno al momento a nostro avviso affrontando. La solidarietà finanziaria tra stati membri ci appare insufficiente per impedire prolungate incertezze di funding»

Già sei mesi fa, e prima ancora, le agenzie ed il buonsenso avevano intuito che, in assenza di uno scudo anti-spread, cioè di una solidarietà tra stati membri che compensasse l’austerità e l’impatto negativo delle riforme sulla crescita, la prognosi sarebbe stata infausta, e gli anelli deboli della catena sarebbero stati sottoposti a pressioni crescenti, non solo domestiche. Cosa che oggi reitera anche Moody’s, parlando di “rischi di contagio per l’Italia, provenienti da Grecia e Spagna”. Un evidente monito a quanti, tedeschi in primis, si ostinano a pensare all’architettura dell’Eurozona come alla sommatoria di diciassette economie nazionali, e non come ad un inviluppo che può strangolarci tutti.

La morale di questa vicenda? Brucereste al rogo il messaggero di cattive notizie, di cui peraltro siete già a conoscenza? Pare che, per la politica italiana, la risposta sia affermativa.

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