Il Dpef ci parlerà di Kyoto, senza dirci quanto costa

di Piercamillo Falasca, anche su L’Occidentale

Alfonso Pecoraro Scanio, ministro dell’Ambiente, ha forse reso un servigio utile al paese: ha chiesto ed ottenuto – grazie ad un articoletto del decreto fiscale collegato alla Finanziaria – che, dal prossimo anno, il Dpef contenga un aggiornamento sullo stato di attuazione del protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni di CO2.

Bene, si potrà – numeri alla mano (almeno si spera) – commentare e contestare la resa del sistema di tetto alle emissioni. Di Kyoto si parla troppo e male, anteponendo una visione ideologica dell’ambiente alla realtà dei fatti. Si dice che fa sempre più caldo, che l’uomo (massimamente quello occidentale) con le sue industrie e i suoi consumi è il massimo responsabile, che il mondo andrà rapidamente alla malora, ma che invertire la rotta si può e per farlo s’ha da applicare il Protocollo. Non si dice, invece, che il global warming non ha una chiara evidenza scientifica, che nessun accordo sarà mai credibile senza il coinvolgimento di Cina e India e che – a fronte di scenari tanto apocalittici quanto quelli prospettati da Al Gore & C. – gli effetti di Kyoto sarebbero irrilevanti. Soprattutto, si omette un particolare: che nella UE il protocollo è operativo dal 2005 e il suo bilancio è fallimentare. Il sistema “cap and trade” è costoso, inibisce la crescita economica ed è poco efficace per fronteggiare il cambiamento climatico.

Servono proposte più ragionevoli: per ridurre l’inquinamento bisogna puntare su ricerca e investimenti nel settore energetico, promuovendo soluzioni di mercato. Ma proprio di ragionevolezza si difetta: l’Europa ha da tempo scelto la battaglia ambientale per recuperare un ruolo nell’arena internazionale; la sinistra ha ritrovato nell’ambiente una chiave per l’anti-americanismo e l’anti-mercatismo. Ciò detto, torniamo al decreto. Sarà interessante verificare, anno dopo anno, quanto (poco) si starà rispettando Kyoto. Sarebbe ancor più interessante, però, appurare quanto staremo sacrificando in nome di Kyoto. Quanto spende il sistema produttivo italiano per adempiere ai dettami del protocollo? Quale è l’onere per la finanza pubblica, ovvero per le tasche degli italiani, della pletora di incentivi, agevolazioni e contributi per la produzione di energie alternative? Soprattutto, quanto dovrà sborsare il governo italiano per l’acquisto di permessi di emissione aggiuntivi (vista l’alta probabilità di sforamento dagli obiettivi fissati)?

Essendo il Dpef lo strumento principe della programmazione economica del paese e non un mezzo di propaganda, sarebbe opportuno che la relazione governativa contenesse (come ha proposto Benedetto Della Vedova con un emendamento, purtroppo cassato, al decreto) anche una valutazione dei costi per le imprese, per i consumatori e per i contribuenti. Probabilmente si scoprirebbe – lo ha calcolato lo studioso danese Bjorn Lomborg – che il taglio di una tonnellata di CO2 costa dieci volte il beneficio atteso e sette volte il valore degli investimenti in tecnologie low-carbon che produrrebbero lo stesso risultato. Davvero una verità scomoda.

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