di Mario Seminerio
Dall’11 settembre 2001 è apparso drammaticamente chiaro che l’Occidente si sarebbe trovato ad affrontare, negli anni successivi, la sfida della “guerra asimmetrica”: di qui, eserciti regolari, equipaggiati in modo estremamente sofisticato, per combattere in teatri di guerra guerreggiata. Di là, gruppi agili composti da cellule spesso dormienti ed attivabili in modo estremamente efficace (per danno inflitto al nemico) ed efficiente, per limitatezza dei costi operativi sostenuti per il mantenimento di tali cellule. Di qui, il rischio di compressione dei diritti civili e di “stress democratico”, di là il puro e semplice disprezzo per la vita umana. Il simbolo di questa asimmetria è stato tragicamente rappresentato, per lunghi anni, dagli IED (improvised explosive devices), le bombe che, collocate ai lati delle strade irachene ed azionate con telecomandi, hanno fatto strage di militari statunitensi e civili locali.
In Iraq, la proliferazione di gruppi terroristici vicini ad Al-Qaeda ha finito con l’attivare meccanismi di reazione nelle comunità locali, anche e soprattutto sunnite, col risultato di limitare grandemente l’operatività del network terroristico. Paradigmatico è il caso del Consiglio di Salvezza di Anbar, un gruppo di milizie tribali formato da ex baathisti e nazionalisti iracheni, a cui le forze armate statunitensi hanno fornito armi ed equipaggiamento, e che sono riuscite a ridurre drasticamente l’influenza dei gruppi estremistici stranieri nella provincia di Anbar. Potrebbe essere stato lo sviluppo di simili milizie, e non necessariamente (o non esclusivamente) la surge del generale Petraeus ad aver contribuito a stabilizzare la situazione sul campo, come si presenta attualmente. Ma se così stanno le cose, è lecito interrogarsi su quale futuro possa esistere per l’intera grand strategy statunitense in Medio Oriente e più in generale nelle aree del mondo in cui operano milizie di insorti che possono danneggiare gli interessi di Washington.
Un interessante contributo a tale filone di analisi viene da John Robb, ex pilota militare, esperto di antiterrorismo ed imprenditore, autore del seguitissimo blog Global Guerrillas, dedicato all’analisi dell’Open Source Warfare. Robb esamina il futuro della strategia di sviluppo di milizie cosiddette Open Source (la cui definizione è contenuta nell’articolo linkato), cioè di strutture militari non statali (vere e proprie Ong, nei fatti), come “antidoto” di segno uguale e contrario al fenomeno della insurgency irachena, ma anche pakistana, colombiana, brasiliana. Una strategia interessante, per il risparmio potenzialmente considerevole di costi finanziari e in vite umane (militari e civili) legato all’attività di counterinsurgency, ma che rischia di non differenziarsi significativamente dalla strategia salvadoregna adottata dagli Stati Uniti in Centro America negli anni Settanta e Ottanta. Senza dimenticare che, con l’affermazione delle milizie come reazione alla guerriglia, la stessa nozione di nation building verrebbe di fatto annichilita, con buona pace di tutti gli idealismi neowilsoniani di cui abbiamo letto negli ultimi anni.
Lasciamo aperto il topic, anche se è evidente che l’analisi dei motivi della recente riduzione della violenza settaria in Iraq condurrebbe a conclusioni drasticamente differenti, in funzione delle reali determinanti di tale calo.
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