Risanare, redistribuire, raggirare

di Mario Seminerio

Nel 1996 il governo Prodi (ministro del Tesoro era Carlo Azeglio Ciampi) avviò un’imponente azione di riduzione del deficit di bilancio, per rientrare nei parametri di convergenza all’euro previsti dal Trattato di Maastricht. La manovra ebbe successo, e permise al nostro Paese di entrare nella moneta unica. Anche allora, non senza fondamento, la retorica d’ordinanza fu quella emergenziale. Prodi era appena tornato dalla Spagna, dove aveva inutilmente tentato di convincere l’allora primo ministro Aznar a formare un fronte comune per ottenere un differimento dei tempi d’ingresso dei due paesi nell’euro, ottenendone un secco rifiuto. Da quel momento iniziò una disperata corsa contro il tempo, gestita dal governo italiano attraverso aumenti di tassazione e blocco temporaneo di spesa pubblica.

Oggi, che la mitologia imperante narra di quell’epica come di un momento dirimente della storia patria, e narra altresì della legislatura 2001-2006 come di un momento di lassismo e dissipatezza nella gestione della spesa pubblica, può essere utile leggere quanto scritto da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi nel loro ultimo libro, Goodbye Europa:

Per cambiare le aspettative di consumatori ed imprese è necessaria un’azione decisa e se le aspettative non cambiano è improbabile che al consolidamento dei conti pubblici si accompagni un miglioramento della fiducia dei consumatori e delle imprese, entrambe necessarie per impedire una recessione. L’Italia offre un esempio di segno opposto. A partire dagli anni Novanta il nostro Paese avviò un lungo processo di riduzione del deficit di bilancio, motivato sia dall’incentivo costituito dai requisiti per l’ammissione all’Unione monetaria europea, sia dalla crisi valutaria del 1992. La correzione dei conti pubblici italiani fu graduale ed ebbe luogo quasi esclusivamente sul versante delle entrate. Il gettito fiscale in rapporto al Pil passò dal 39 per cento nel 1987 al 47 per cento nel 1999, quando l’Italia fu ammessa nell’euro. Da allora, le entrate sono sempre rimaste sopra il 45 per cento del Pil. Per tutto questo periodo la crescita è stata stagnante e nel 2005, con un disavanzo che ha raggiunto il 4.1 per cento del Pil e un debito pubblico cresciuto in un anno dal 104 al 106.5 per cento, le finanze pubbliche italiano sembrano essere, ancora una volta, in guai seri: praticamente gli stessi di quando si avviò il risanamento. Il motivo: le correzioni degli anni Novanta non furono ottenute tramite tagli strutturali alla spesa pubblica. Anzi, la spesa pubblica corrente al netto degli interessi è recentemente passata dal 37,3 per cento del Pil nel 2000 al 40 nel 2005. L’aggiustamento non ha avuto effetti duraturi proprio per l’incapacità a ridurre strutturalmente la spesa.

Alesina e Giavazzi non si soffermano sulla concausa della crescita del rapporto tra debito e Pil: l’aumento dei tassi reali in tutto il mondo, che sull’economia italiana ha avuto effetti amplificati dalla crisi del modello di sviluppo, basato su piccole dimensioni produttive e specializzazione in settori maturi, a basso valore aggiunto e bassa crescita della produttività. Ma resta l’essenza politica di un modello di “risanamento” che tale non è, e che rappresenta, nella sostanza, l’eterna riproposizione del modello tax and spend, figlio dell’ipercorporativismo patologico che è la vera tabe di questo Paese. Proseguire su questa linea di condotta mostra inequivocabilmente che, più che il Paese, ad essere impazzito è l’esecutivo.


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