Tasse e lavoro: la differenza tra USA ed Europa

di Pierangelo De Pace 

Una delle principali differenze tra l’economia europea e l’economia americana risiede nel fatto che gli europei (occidentali) tendono generalmente a lavorare meno degli americani. Gli Stati Uniti devono dunque in larga parte la propria ricchezza e la propria supremazia in termini economici rispetto ai cittadini del Vecchio Continente a questo importante aspetto che, molto spesso, viene spiegato attraverso la presunta esistenza di differenze culturali che spingono gli statunitensi a voler consumare di più (e quindi a cercare di produrre, oltre che ad importare, in misura maggiore) e gli europei a godere maggiormente di tempo libero.

Fino agli anni ’70, tuttavia, in molti Paesi dell’Europa continentale si lavorava di più rispetto agli Stati Uniti. Ma quelli erano gli anni del boom economico che seguivano la fine della Seconda Guerra Mondiale. Uno dei principali motivi per cui oggi, invece, ad esempio i francesi lavorano un terzo in meno degli americani non è semplicisticamente una generale preferenza per il tempo libero (pur vera e prevalente per ragioni culturali e dovute all’abitudine), ma la presenza di tasse ed imposte sul lavoro e sulle attività produttive in genere che via via si sono fatte più elevate e consistenti. Questo sembra essere sostanzialmente vero non solo in Francia, ma in quasi tutti i Paesi dell’Europa continentale occidentale.

In un famoso articolo de The Wall Street Journal, risalente al 20 ottobre 2003, Edward Prescott, Professore di Economia che un anno più tardi sarebbe anche stato insignito del Premio Nobel, afferma che questa sarebbe infatti la principale giustificazione dei bassi tassi di partecipazione al lavoro e del basso numero di ore lavorate settimanalmente in Europa rispetto agli standard americani. Le tasse e le imposte europee, generalmente più alte, hanno con il tempo reso più difficili e più costose le assunzioni, anche se, in taluni casi, i salari direttamente in busta paga non hanno seguito particolari tendenze al rialzo. A rigor di logica economica, infatti, più alta è la pressione fiscale, più sconveniente risulta al datore di lavoro il pagamento di salari che siano in grado di convincere il prestatore di lavoro ad accettare o mantenere un posto di lavoro o a lavorare per un maggior numero di ore; piuttosto che affidarsi all’assistenza pubblica (magari attraverso sussidi di disoccupazione generosi e prolungati nel tempo), continuare a frequentare l’università anche senza profitto o ad andare in pensionamento anticipato. Inutile sottolineare che sono, questi, tutti fenomeni che noi europei conosciamo molto bene.

Verso la metà circa degli anni ’90, nei Paesi del G7 la situazione era la seguente (Fonte: Wall Street Journal, 20 Ottobre 2003, pagina A2):

Paese

Aliquota Marginale Complessiva

Ore di Lavoro Settimanali Medie per Individuo

Italia

64%

16.5

Francia

59%

17.5

Germania

59%

19.3

Canada

52%

22.8

Gran Bretagna

44%

22.9

USA

40%

25.9

Giappone

37%

27.0

Dalla tabella indicata, risulta chiaramente una relazione negativa tra lavoro e aliquote marginali (comprendenti anche la porzione che ricade sul datore di lavoro), riguardate indistintamente (e non sorprendentemente) le sette economie mondiali più sviluppate. In Giappone, alla metà degli anni ’90, con un livello di tassazione al di sotto di quello statunitense si lavorava addirittura di più. In Italia, con tasse più elevate, si verificava il fenomeno contrario. In un Paese come il nostro in cui, come ha ricordato di recente il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, la produttività del lavoro cresce meno che in altre economie industrializzate occidentali e non solo, lavorare per giunta di meno significa perdere in partenza la partita della crescita e dello sviluppo.

La differenza tra le varie nazioni esaminate in termini di ore lavorate settimanalmente era molto più ridotta durante gli anni ’70, quando le aliquote fiscali erano più simili tra loro. Da allora, i dati confermano un’evidente tendenza alla diminuzione delle ore lavorate in tutti i Paesi del G7; una diminuzione, tuttavia, proporzionalmente più accentuata nel caso di Italia, Francia e Gemania.

Una relazione negativa tra le due variabili indicate sopra è rintracciabile non solo tra le nazioni del G7, ma, in media, anche tra le nazioni dell’OCSE, come riportato in un lavoro firmato da Alesina, Glaeser e Sacerdote nel 2004. Nell’articolo dei tre economisti si afferma che il fenomeno riguarda anche il rapporto tra aliquote marginali e numero medio di settimane di lavoro per nazione nell’arco di un anno solare (composto di 52 settimane): negli USA si lavora per ben 46.2 settimane; in Svezia si lavora per sole 36 settimane (non sorprendentemente il livello più basso tra i Paesi europei, in corrispondenza di una tassazione media e marginale tra le più elevate in assoluto); in Italia, Francia e Germania si lavora rispettivamente per 41.1, 40.7 e 40.6 settimane ogni anno. In Irlanda si lavora 43.9 settimane, così come in Ungheria (Paesi, questi, in cui la tassazione sul lavoro è meno progressiva e tendenzialmente più piatta); persino la più dinamica Spagna (rispetto agli standard latini) tocca quota 42.1.

Nello stesso articolo si cerca, tra le altre cose, di mettere in evidenza quali possano essere le cause di tasse generalmente più alte nei Paesi europei. Si scopre allora che esiste un’interessante relazione negativa tra il numero complessivo di ore lavorate in un anno nei Paesi dell’OCSE e la percentuale di prestatori di lavoro aderente a qualche forma di contrattazione collettiva attraverso i sindacati. Il numero delle ore di lavoro tende a diminuire man mano che l’adesione dei lavoratori ai contratti sindacali si fa più sostanziale: in Austria, con percentuali vicine al 100% ogni individuo lavora meno di 1600 ore ogni anno; negli Stati Uniti, con una proporzione di aderenti a forme diverse di contratti sindacali pari a circa il 20% della forza lavoro si lavora per oltre 1800 ore all’anno. In Giappone, addirittura per oltre 1900 ore con una percentuale di adesioni intorno al 22%; in Francia ed in Germania si lavora mediamente per 1500-1600 ore all’anno a fronte di un’adesione ai patti sindacali attorno al 90% del totale complessivo dei prestatori di lavoro. Non a caso si scopre, infine, che la correlazione tra numero di giorni di vacanza e tassi di sindacalizzazione è positiva anche per quanto riguarda gli Stati americani.

Detto altrimenti, a parità di spesa pubblica, se si lavora di meno per preferenze, cultura, abitudini e anche grazie ai pesanti interventi sindacali nel mercato del lavoro, è inevitabile che le aliquote medie debbano aumentare affinchè i conti pubblici non ne risentano. Ma se le tasse agiscono negativamente sull’offerta di lavoro, un meccanismo perverso – che si attiva soprattutto quando la pressione fiscale raggiunge livelli elevati – porta ad un’offerta di lavoro ancora minore e mina le capacità di crescita di lungo periodo. Senza considerare poi, come precedentemente discusso in altri articoli su questo stesso sito, l’emergere di incentivi all’evasione, al lavoro in nero ed all’emigrazione; tutti fenomeni che si vengono a determinare in situazioni simili come risposta economica razionale finalizzata alla minimizzazione dei costi ed al risparmio fiscale.

Se si confrontano, infine, le ore di lavoro settimanali medie per prestatore di lavoro, si nota ancora che negli USA questa variabile è pari a 39.39; in Francia, Germania ed Italia a 36.21, 36.48 e 37.42 rispettivamente. I tassi di occupazione (la percentuale di occupati sul totale della popolazione in età da lavoro, 15-64 anni) seguono un andamento simile: 72% negli USA, 66% in Germania, 64% in Francia, solo 57% in Italia.

Gli Stati Uniti d’America hanno da sempre ben presenti queste evidenze empiriche e sembrano essere molto preoccupati di mantenere i livelli della pressione fiscale complessiva entro limiti accettabili, relativamente più bassi rispetto agli standard europei. Dal punto di vista americano, la più grande lezione che può venire da questi dati sembra riguardare il fallimento sostanziale europeo nel contenimento della spesa pubblica corrente. Tra circa dieci anni gli Stati Uniti dovranno fare i conti con la generazione del baby-boom che, finalmente, andrà in pensione. Per fronteggiare un fenomeno demografico che potrebbe significare espansione della spesa pubblica attraverso prestazioni previdenziali, pensionistiche ed assistenziali più ingenti a causa di un numero più elevato di aventi diritto, la risposta di politica economica potrebbe essere in linea di principio anche quella di un aumento della pressione fiscale per poter contenere il deficit di bilancio.

Ma gli USA sanno bene che a fronte di maggiori tasse per il finanziamento della spesa corrente, l’incentivo medio a lavorare si potrebbe ridurre (i dati indicati sopra dovranno pur significare qualcosa!). Ne potrebbe conseguire una riduzione del numero di individui facenti parte della forza lavoro e tasse più elevate per la restante parte di lavoratori, cui spetterebbe l’onere di sostenere il peso del maggior disavanzo fiscale attraverso una contribuzione via via più aspra. Il rischio sarebbe quello di attivare un circolo vizioso che porterebbe le abitudini lavorative degli americani ad essere di nuovo, dopo oltre quarant’anni, molto simili a quelle europee, ma questa volta sarebbe chiaramente uno svantaggio per l’economia USA.

Per questo già da anni si cerca di riformare in maniera seria i sistemi pensionistici ed assistenziali di sanità pubblica: contenere – o, meglio, ridurre – la spesa corrente negli USA sembra essere diventata un’urgenza ed una priorità. Pur con molte difficoltà politiche, gli americani sembrano aver capito la necessità di provvedimenti che vadano in questa direzione, anche se la strada appare irta di ostacoli a causa del ruolo politico e militare che gli Stati Uniti d’America hanno assunto negli ultimi anni a livello mondiale.

Guardando più da vicino agli affari di casa nostra, la Finanziaria 2007 sembra non tener conto di questa evidenza empirica, andando nella direzione opposta rappresentata da un aumento generalizzato della pressione fiscale. Tra le altre cose, però, il Presidente del Consiglio Romano Prodi afferma preoccupato da qualche giorno che “il Paese sembra impazzito e non pensa al futuro”; ed ammette che contro i tagli esiste una ferocia impressionante. Senza entrare nel dettaglio di quali tagli siano stati davvero previsti in Finanziaria o per le prossime manovre e di quale sia la loro opportunità politica ed economica, le parole di Prodi sottolineano, tuttavia, una grande ed importante verità, alla base delle difficoltà politiche e di azione di qualsiasi governo. Ma la strada della crescita e del risanamento passa necessariamente attraverso (e non solo) una forte riduzione ed il ripensamento della spesa pubblica corrente; nonchè attraverso il ridimensionamento sostanziale e la profonda riorganizzazione dell’apparato statale.


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