Siamo in guerra? No, ci sono tre lotte diverse

di Andrea Gilli

Gli attentati di Parigi della scorsa settimana hanno nuovamente aperto le gabbie: opinioni di ogni genere si sono lette su giornali e riviste riuscendo, talvolta, a superare il becerume che spesso affiora in rete. In questo post tenterò di svolgere qualche riflessione allargando l’orizzonte e la prospettiva storica. La mia opinione, sostenuta dalla logica prima che dagli studi accademici, è che non siamo in guerra. In particolare, gran parte del dibattito attuale confonde tre fenomeni diversi: la guerra “dei trent’anni” in cui è sprofondato il Medio Oriente, l’alienazione sociale che caratterizza alcune frange (estremamente minoritarie) delle popolazioni che vivono in Occidente e l’integrazione dei cittadini di fede islamica in Europa. Non mi occuperò invece dei personaggi folcloristici che vedono gli attentati della scorsa settimana come una reazione alle politiche occidentali.

Secondo molti, gli attentati di Parigi della scorsa settimana sarebbero semplicemente uno dei tanti scontri che compongono la più grande guerra lanciata contro l’occidente dal jihadismo internazionale. Vi sarebbe dunque un filo diretto tra l’avanzata dell’ISIS in Siria e in Iraq, per esempio, e l’attentato a Charlie Hebdo. La presenza nel mondo occidentale di minoranze numericamente ampie di cittadini islamici che non si distanziano pubblicamente o completamente da queste violenze renderebbe questa guerra ancora più subdola e difficile.

Non sono d’accordo. Che tra i tre fenomeni via sia un tratto in comune, l’Islam, è inutile negarlo. Ma questi sono, appunto, tre fenomeni diversi con cause e radici diverse e che, quindi, vanno trattati in maniera diversa.

Vi è, in primo luogo, una sorta di Guerra dei Trent’anni all’interno del mondo musulmano: una guerra che, come nel periodo 1618-48, vede uno scontro durissimo tra diverse interpretazioni del mondo, della religione e della loro mutua relazione. Le immagini che provengono dalla Siria sono, spesso, di una crudezza impressionante. Queste vanno però, purtroppo, contestualizzate: nella guerra dei Trent’anni perse la vita tra il 20 e il 40% della popolazione allora residente sul territorio dell’attuale Germania e Repubblica Ceca, spesso per fame e malattie. Stiamo parlando di stime che spaziano, in media, intorno ai 10 milioni di vittime, su una popolazione  di circa 25 milioni di abitanti. Le guerre ideologiche, incluse quelle di religione, non possono che portare a perdite numericamente impressionanti, in quanto il loro fine ultimo è assoluto.

La guerra di al-Qaeda e dell’ISIS in Medio Oriente non va però confusa con gli attentati islamisti che vengono portati a termine in Occidente – se non in rari casi. Mi spiego meglio: con l’11 settembre al-Qaeda ha voluto, da una parte, rafforzare la sua immagine nel mondo musulmano, sperando di attirare nuovi affiliati. Dall’altra, Bin Laden e soci volevano coinvolgere gli Stati Uniti nella loro guerra contro i regimi arabi “moderati” così da aumentare risentimento e frustrazione tra le masse di questi Paesi e, in ultima istanza, portare ad un ribaltamento dei loro regimi.

Gli attentati di Parigi non sembrano però appartenere a questa logica. Un esempio può essere utile. Nel Secondo dopoguerra, l’Occidente è stato coinvolto in una dura guerra “fredda” contro l’Unione Sovietica. Le Brigate Rosse non erano, però, parte di quella guerra. Anche se contatti tra le Brigate Rosse e l’URSS possono essere esistiti, nessuno può veramente pensare che le due guerre fossero due lati della stessa medaglia. Lo stesso ragionamento vale oggi e per capirlo bisogna capire la natura del terrorismo.

Sebbene molti, specie tra gli ambienti più radicali, tendano a scorgere una radice romantica nel terrorismo, in parte influenzati dal processo di decolonizzazione, il terrorismo contemporaneo ha caratteristiche peculiari. In particolare, la sua origine si trova principalmente nell’alienazione sociale. Alienazione sociale non vuole dire povertà: vuole dire che a causa di fattori familiari, sociali o psicologici, un individuo non ha sviluppato quell’insieme di capacità umane necessarie per interagire con il resto della sua comunità di origine, per sentirsi parte di essa e per condurre una vita che generalmente definiremmo normale. Al contrario, questo cova un risentimento fondamentale verso l’intera società che gli sta attorno a tal punto da volerla combattere. Tre elementi meritano attenzione:

I gruppi terroristi sono composti, prevalentemente da due categorie demografiche: giovani maschi disoccupati e con problemi di piccola criminalità e donne vedove;

Non c’è coerenza nei fini dei terroristi ma un continuo tentativo di ricercare nuovi obiettivi per poter continuare la lotta e così ottenere supporto e riconoscimento dagli altri membri del gruppo. Settembre Nero era nato per combattere il regime di Assad in Siria, ne divenne il braccio armato all’estero; bin Laden ha iniziato combattendo l’Unione Sovietica in Afghanistan finanziato dall’Arabia Saudita dei Saud, vinta quella guerra ha poi deciso di voler liberare la penisola arabica dai sovrani che l’avevano finanziato precedentemente; l’ETA era sorta per combattere Franco, morto Franco si è messa a combattere la Spagna democratica. Il caso di Carlos è forse il più interessante: da marxista-leninista che combatteva contro il capitalismo e la religione si è convertito all’islamismo più radicale.

Il reclutamento di nuovi adepti avviene, spesso, in carcere, dove giovani uomini con situazioni personali difficili trovano quel supporto umano che non hanno mai ricevuto.

Queste stesse considerazioni spiegano perché il terrorismo non vince praticamente mai: i suoi leader vengono arrestati e spesso uccisi, non di rado con un buon numero di torture nel mezzo. Solo dunque una persona alienata dalla società, che ritiene di non aver nulla da perdere, può lanciarsi in una crociata che, anche se usa mezzi diversi, è fondamentalmente suicida. Per chi non fosse convinto, basta guardare la biografia dei tre terroristi di Parigi: dediti alla piccola criminalità, sono stati radicalizzati in carcere, hanno poi lanciato una missione che, per quanto drammatica dal punto di vista tattico, ha ottenuto un solo risultato, la loro uccisione e, presto, la distruzione del loro network di supporto. Il giorno dopo gli attentati, il numero di messaggi su Twitter favorevoli ad ISIS è crollato: i terroristi non hanno rafforzato la loro causa, la hanno indebolita.

Qui arriviamo all’ultimo punto, l’integrazione dei cittadini di fede islamica nel mondo occidentale. Questa è un’altra sfida, per una lunga serie di ragioni: lo Stato moderno si fonda, alla base, su società uniformi e uniformate. Basta ricordare Manzoni: “una sola di lingue e d’altare, di memorie, di sangue e di cor.” E’ però evidente che l’integrazione dei cittadini di fede islamica è cosa ben diversa dal terrorismo islamista. Certamente, senza un’integrazione efficace, il rischio di aumentare l’alienazione di alcuni individui aumenta, ma il filo che lega i due processi è molto più tenue di quanto spesso si pensi. Si pensi alla storia della giovane italiana di origini napoletane andata a combattere in Siria: è italiana al 100%. Allo stesso modo, molti chiedono chiare prese di distanza da parte dei musulmani rispetto agli attentati: il fatto che su internet ci siano dei messaggi a favore dei terroristi sarebbero invece, per altri, prova-provata del fatto che l’Islam è parte del problema. In realtà, per trovare messaggi raccapriccianti su internet, non è necessario andare a guardare cosa scrivono i musulmani. Gli stessi occidentali sembrano fare fatica ad adeguarsi alla trasformazione sociale prodotta dalla globalizzazione e dalle comunicazioni digitali.

Il fatto che i cittadini di fede musulmana, immigrati di prima o seconda generazione, abbiano valori diversi – in alcuni casi – e a volte anche in contraddizione con alcuni punti cardine dell’Occidente, può non piacerci, può essere ragione di apprensione, ma non significa che ci sia una guerra contro di noi. In questo senso, molti tendono a dimenticarsi che i valori a cui si ispira l’Occidente, non sono stati scolpiti sulla pietra, ma sono il frutto di lunghi processi di evoluzione e adattamento: rappresentatività, cento-cinquanta anni fa, voleva dire voto per censo, rappresentatività oggi, significa l’incapacità del suffragio universale di riflettere i bisogni del cittadino comune.

In conclusione, a mio modo di vedere, non c’è una guerra contro l’Occidente, ma ci sono tre sfide ben diverse. Confonderle in un tutt’uno è un grave errore: sarebbe come identificare, durante la Guerra Fredda, l’URSS, il PCI e le Brigate Rosse in un’unica entità. Il rischio principale, infatti, è che i tre vasi ben distinti e uniti solo da fili molto sottili inizino a “comunicare” più intensamente per via di politiche inappropriate. Non solo rispondere adeguatamente a queste tre sfide è difficile, ma può anche rappresentare una sfida ai nostri stessi valori. Per esempio, intervenire in Medio Oriente per prevenire disastri umanitari può essere coerente con i nostri concetti di civiltà ma potrebbe, in ultima analisi, indebolire – se non fermare – un processo storico di modernizzazione che, nella stessa Europa, non fu certo timido per quanto riguarda vittime e violenze.

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