di Andrea Gilli
La pubblicazione dell’inchiesta ONU sulla famosa freedom flotilla, poi conclusasi con la morte di alcuni attivisti (anche turchi) per via di fuoco israeliano, ha creato uno nuovo stallo diplomatico tra Israele e la Turchia. I giornali hanno dato risalto alla vicenda.
In primo luogo, va sottolineato che le frizioni tra Israele e Turchia non sono nuove. Su Epistemes ne abbiamo parlato già due anni fa. La tragedia della Mavi Marmara non è quindi da intendersi come causa di questa nuova tensione ma, piuttosto, ne è un sintomo. Autorizzando quella missione, la Turchia ha di fatto permesso che la tensione diplomatica crescesse.
Dall’altra parte, va ricordato che la Turchia è stata storicamente uno dei migliori alleati di Israele: un Paese non arabo, a lungo profondamente laico, e alleato degli Stati Uniti quando il panarabismo strizzava l’occhio un po’ all’URSS e un po’ alla Cina.
Come mai la Turchia di Erdogan sta cambiando posizione? A mio modo di vedere, tre fattori aiutano a comprendere questa dinamica.
In primo luogo, c’è il cambiamento del sistema internazionale, che vede un indebolimento degli Stati Uniti, soprattutto nella loro presa sul Medio Oriente. Ciò lascia maggiori possibilità di manovra, specie per Paesi che crescono economicamente e hanno istituzioni politiche relativamente solide, come è certamente la Turchia (specie se paragonata ai suoi vicini: Libia? Siria? Egitto? Iran? Iraq?).
La Turchia può giocare un ruolo crescente in Medio Oriente, solo però se questo verrà accettato legittimamente. Il non essere un Paese arabo ha già un caro prezzo. Un alleanza con Israele rappresenterebbe un ulteriore fardello, nell’ottica di questa strategia, in un Medio Oriente dove l’antisionismo è ancora un’ideologia dominante. Che l’islamizzazione della Turchia sia esogena (creata cioè dal sistema internazionale) o endogena (creata da una sorta di risveglio islamico) poco conta. Il punto centrale è che senza legittimità la Turchia può difficilmente aspirare ad un ruolo di primo piano nella regione.
Dall’altra parte, la crisi dell’Unione europea, unita ai veti franco-tedeschi sul suo ingresso in Europa rende la strategia mediorientale quasi obbligata per la Turchia. Nel mondo globalizzato di oggi, gli Stati nazione contano solo se hanno alle spalle un blocco regionale che garantisca export e stabilità politica. La Turchia non può chiaramente stare alla finestra dell’Europa per sempre.
Vi è poi un fattore complementare a quanto detto. Le recenti turbolenze che stanno attraversando il Medio Oriente chiedono una leadership regionale. La Turchia ha interesse a prendere quel ruolo, anche per garantire la propria sicurezza. Ciò spiega le prese di posizione contro la Siria, i bombardamenti contro i curdi in Iraq e, appunto, queste crescenti frizioni con Israele.
Dove andremo? Difficile dirlo: certo, non mi aspetto un miglioramento delle relazioni diplomatiche tra Israele e Turchia. Ciò non vuole dire che ci sarà una rottura, ma piuttosto è verosimile pensare ad un ulteriore raffreddamento dei rapporti tra i due Paesi. Le conseguenze più grandi saranno per Israele. Purtroppo, nonostante gli sforzi, è difficile che il governo israeliano possa cambiare qualcosa: dinamiche strutturali possono essere tamponate solo a livello strutturale.
La perdita del migliore alleato nella regione, insieme all’indebolimento degli USa, avranno infatti delle dure conseguenze per Israele, una cui prima manifestazione è il prossimo voto sull’indipendenza della Palestina in sede ONU (mai avvenuto, finora).
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