di Andrea Gilli
Un anno fa, all’indomani dell’elezione di Nicolas Sarkozy, avevamo spiegato le ragioni per cui, a nostro modo di vedere, la politica francese non sarebbe cambiata in maniera sostanziale rispetto alla precedente esperienza chiracchiana (1 e 2). Ad un anno di distanza, stimolati anche da un interessante articolo pubblicato dalla rivista di intelligence Stratfor, esaminiamo il corso attuale e futuro della politica estera francese.
L’elezione a presidente di Nicolas Sarkozy avvenuta la scorsa primavera aveva spinto molti, soprattutto nel nostro Paese, a sognare una decisa rottura con il passato rispetto alla politica estera d’oltralpe, e in particolare rispetto a quella adottata dal suo predecessore, Jacques Chirac.
Nel corso della sua carriera politica, Sarkozy si era già distinto per alcune posizioni innovative e talvolta in rottura con la tradizione conservatrice francese. Dall’enfasi sui valori occidentali, ad una non troppo latente simpatia nei confronti degli Stati Uniti, fino ad un marcato approccio pro-mercato in ambito economico.
Al momento della sua elezione, ci permettemmo però di sostenere che la sua politica estera sarebbe stata molto meno diversa di quanto critici e sostenitori affermavano.
In prima analisi, rilevavamo come cultura francese, geografia e natura del sistema internazionale avrebbero posto forti limiti a qualsiasi cambiamento radicale rispetto al passato. La cultura francese, e soprattutto il nazionalismo francese, impongono al Paese, e soprattutto a chi lo governa, di cercare prestigio e onore per la Francia. Ciò ovviamente implica una certa voglia di primeggiare che non può mai essere messa in secondo piano – a meno di non voler subire brucianti sconfitte elettorali.
La geografia, e più precisamente la collocazione allo stesso tempo mediterranea e continentale della Francia, pone delle importanti sfide geopolitiche. Da una parte, la necessità di essere una “guida” in Europa, o almeno di impedire la dominazione di altri Paesi, prima di tutto la Germania. Dall’altra parte, la continuazione del ruolo di proto-egemone regionale in Medio Oriente e soprattutto nell’Africa occidentale e settentrionale per garantire sia gli interessi economici transalpini che lo status di Grande Potenza a Parigi.
Infine, la natura hobbesiana del sistema internazionale obbliga la Francia a cercare parallelamente il rafforzamento della propria sovranità e quindi del suo potere relativo (di cui il nazionalismo è una manifestazione) e dall’altra il mantenimento di una posizione di forza regionale ed extra-regionale (di cui è appunto manifestazione la sua politica estera verso l’Europa e la sponda sud del Mediterraneo).
Tutt’ora siamo convinti della bontà della nostra analisi. Nei giorni scorsi, però, un’accurata analisi pubblicata da Strafor mette in discussione molto di quanto avevamo previsto. In questa seconda parte dell’articolo, dopo un breve riassunto del testo pubblicato da Stratfor, cercheremo di conciliare le nostre posizioni con quelle espresse nell’analisi appena citata.
George Friedman, autore dell’analisi qui in esame, sostiene che la politica estera francese è stata recentemente contraddistinta da alcuni piccoli ma significativi cambiamenti che, in prospettiva futura, possono rappresentare delle importanti rotture con la secolare politica estera francese.
Innanzitutto, secondo Friedman, l’opposizione cocciuta che Chirac operò nei confronti degli Stati Uniti in occasione della guerra in Iraq sarebbe stata guidata dal desiderio di bilanciare Washington. L’obiettivo consisteva nel creare un polo politico e militare in grado di reggere il confronto con gli Stati Uniti e assicurare dunque la sicurezza e l’indipendenza del Continente e soprattutto della Francia. Polo che, ovviamente, doveva essere a guida francese.
Come nota l’analista d Stratfor, il tentativo di Chirac fallì miseramente – la forza relativa e assoluta americana era ancora troppo grande per essere controbilanciata (si veda a proposito Wohlforth, 1999). Nell’analisi di Friedman, Sarkozy sarebbe dunque emerso proprio grazie a quel fallimento che, portando alla deriva Chirac, avrebbe anche affossato gran parte delle idee da lui avanzate. Parallelamente, il progetto europeo (anche grazie alla diplomazia americana) si è arenato. L’Europa come contro-altare degli Stati Uniti non solo non poteva essere costruita – ma neppure lo voleva.
La Francia doveva dunque riconsiderare la sua posizione strategica e il suo ruolo – pena il rischio dell’irrilevanza. Il dato interessante evidenziato da Friedman riguarda appunto la proposta di Sarkozy. Secondo l’analista di Strafor il Presidente francese, resosi conto dell’impossibilità di contrastare gli USA, e parallelamente della progressiva impraticabilità del progetto europeista, avrebbe deciso di perseguire la grandezza e la sicurezza della Francia in maniera alternativa.
Il rapporto con gli Stati Uniti diventava così allo stesso tempo centrale e strumentale alla realizzazione dei due grandi obiettivi storici che la Francia ha perseguito fin dal 1871 – come ricordato, la primazia in Africa settentrionale e centrale, e la centralità europea.
La novità di Sarkzoy è consistita nel tentativo – vedremo in futuro se sapiente – di unire questi due obiettivi. Proponendo l’Unione Mediterranea, una sorta in Unione Europea in divenendo tra i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, ovviamente a guida francese e da cui sarebbero escluse le due potenze europee (Inghilterra e Germania – segno che l’Italia non fa troppa paura), il Presidente francese ha cercato di dare una centralità e un peso geopolitico alla Francia indipendente ma allo stesso tempo rilevante in Europa. In altre parole, spostando il proprio baricentro a sud, la Francia di Sarkozy vorrebbe contare di più a nord.
In questa equazione, la Francia vorrebbe essere una potenza extra-regionale in Africa – e visti i legami territoriali, ciò imporrebbe anche un ruolo imponente in Medio Oriente – così da poter far avere un peso maggiore vis-à-vis la Germania, in Europa. Come è ben noto, il Medio Oriente si regge sull’equilibrio disegnato a Washington. Pertanto le ambizioni europee di Parigi, che vengono realizzate tramite l’Africa e di conseguenza tramite il Medio Oriente, devono passare attraverso un miglior rapporto con gli Stati Uniti.
Di qui si evincono le ragioni strutturali delle migliori relazioni tra Washington e Parigi.
L’analisi di Friedman è, come sempre, acuta e perspicace, e sicuramente coglie molti aspetti che al tempo del nostro articolo non avevamo colto (se era possibile farlo). Alla luce di quanto scritto, in questa parte conclusiva ci interessa però sottolineare due grandi punti.
In primo luogo, i tre fattori che, secondo la nostra previsione, avrebbero rappresentato un argine ai tentativi di rottura di Sarkozy sono rimasti centrali – anche nell’analisi di Friedman. La Francia ha continuato a ostacolare i piani egemonici tedeschi e allo stesso tempo a rafforzare i suoi disegni africani. E soprattutto ha continuato rimarcare la sua indipendenza – leggi francesità. Sul fatto che il sistema internazionale sia rimasto hobbesiano non sembrano esserci dubbi – visto che la stessa politica francese continua ad essere mossa dalla ricerca di sicurezza e forza.
In secondo luogo, se Friedman ha ragione (la sua analisi è certamente perspicace), ciò che è cambiato non è, direttamente, il rapporto con gli USA, ma piuttosto la posizione relativa della Francia. In particolare, le ragioni delle diverse relazioni tra Washington e Parigi vanno riscontrate non tanto a livello individuale ma piuttosto a livello sistemico. Se dunque avevamo torto nel prevedere l’immutabilità dei rapporti transatlantici tra i due Paesi, dall’altra parte avevamo ragione nel suggerire che essi sarebbero stati dettati dai rapporti di forza relativi esistenti nel sistema internazionale. E quindi che la politica estera francese avrebbe continuato ad essere guidata da calcoli di interesse nazionale. Infine, avevamo ragione nel sostenere che l’evoluzione dei rapporti tra due Stati non potesse essere guidata dalla semplice presenza di una sola persona.
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Nel suo articolo, Friedman parla di piccoli cambiamenti, potenzialmente drammatici in futuro. Al di là del fatto che Sarkozy deve essere in grado di restare al potere – obiettivo tutt’altro che facile, visto l’andamento delle recenti elezioni amministrative. Vale la pena in questa sede rilevare come la scomessa di Sarkozy si regga sull’assunto che gli USA abbiano sia la forza che la volontà di svolgere un ruolo egemone in Medio Oriente e, parallelamente, che gli interessi strategici di Parigi e Washington non contrastino. A meno che la Francia non voglia svolgere un ruolo da gregario, ci sembra difficile pensare che questi due assunti possano reggere a lungo. La Francia sta usando Washington per aumentare il proprio peso internazionale. La domanda legittima da porsi riguarda il cosa succederà quando Washington, attraverso la sua politica, sterilizzerà la crescita del ruolo internazionale di Parigi. La risposta, forse, più che nel futuro la si trova nel passato.
De Gaulle ricorse all’aiuto anglo-americano per risolvere la minaccia tedesca. Quando però l’aiuto anglo-americano iniziò a soffocare le ambizioni della Francia, De Gaulle inaugurò un corso che più che gollista, forse, si può chiamare francese.
Per quanto riguarda la volontà americana di svolgere il ruolo di egemone internazionale, le prossime elezioni politiche americane sapranno dare una risposta. Se è vero come nota Christopher Layne (2006) che la politica estera americana è praticamente rimasta immutata (ed offensiva) dal 1940 ad oggi, è allo stesso tempo vero, che il ruolo di egemone internazionale è sempre più difficile da svolgere. I benefici marginali scemano, i costi salgono. E gli sfidandi aumentano.
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