di Daniele G. Sfregola
La secessione del Kosovo dalla Serbia, proclamata solennemente dall’assemblea parlamentare di Pristina il 17 febbraio, pone all’osservatore di politica internazionale tre ordini di problemi. Il primo dilemma è giuridico, il secondo è storico e la terza questione è politico-strategica. Considerata la complessa partita diplomatica giocata tra il Palazzo di Vetro e le vallate dei Balcani meridionali in questi nove anni, conviene precisare da principio i termini del confronto legale in atto in queste ore, riservandoci di approfondire in un secondo tempo l’analisi sul piano storico e politico della querelle.
Al contrario di quanti hanno superficialmente liquidato la decisione kosovara come lecita perché appoggiata dalla maggioranza degli Stati occidentali, è opportuno chiarire che, sul piano giuridico internazionale, la dichiarazione di indipendenza è considerata un atto rilevante a livello meramente storico, una situazione di fatto che, di per sé, non è contraria e non è conforme al diritto internazionale.
I riferimenti all’autodeterminazione del popolo kosovaro, da più parti impropriamente avanzati, non hanno alcun peso nella fattispecie. Infatti, il principio di autodeterminazione dei popoli, come sancito dall’art. 1, par. 2, e dagli artt. 55 e 56 della Carta ONU, dai due Patti ONU del 1966, dalla Dichiarazione dell’Assemblea Generale (AG) sull’indipendenza dei popoli coloniali del 1960, da quella sulle relazioni amichevoli tra gli Stati del 1970, dai pareri resi dalla Corte Internazionale di Giustizia nel caso della Namibia (1971) e del Sahara Occidentale (1975) e dalla sua sentenza nel caso di Timor Orientale (1995), nonché infine dall’unanimità della dottrina, si configura come autodeterminazione esterna, e non interna.
Ha diritto a determinare liberamente il proprio status internazionale quel popolo assoggettato a dominazione coloniale o razzista o il cui territorio è conquistato e occupato con la forza; non già, quindi, quello che ambisce all’instaurazione di un regime interno di tipo democratico. Va da sé che questo tipo di pretesa, sebbene, come si è visto, non fondata in termini giuridici, avrebbe trovato giustificazione quantomeno politica ai tempi del regime di Slobodan Milosevic e della Repubblica Federale di Jugoslavia (RFJ).
Allo stato attuale dell’assetto istituzionale interno alla Serbia e successivo al distacco del Montenegro, della situazione politica interna ed internazionale ad essa connessa in virtù degli sviluppi derivanti dall’intervento aereo della NATO del 1999, della conseguente risoluzione 1244 (1999) del Consiglio di Sicurezza (CdS), della concessione statutaria di una larga autonomia preservata dalla presenza di una missione militare NATO (Kfor) e dell’amministrazione provvisoria del territorio kosovaro da parte delle Nazioni Unite (Unmik), il tema della democrazia come clausola argomentativa utile al perseguimento dell’obiettivo della sovranità e dell’indipendenza non è sostenibile neanche politicamente.
C’è da aggiungere che il principio di autodeterminazione è irretroattivo, non operando così verso quelle situazioni consolidatesi prima della sua formazione, quest’ultima relazionabile al secondo dopoguerra. E’ evidente, perciò, come il Kosovo sotto sovranità serba non rientri in alcuna modo nel’ambito di applicazione integrale di tale regola.
Tuttavia, l’autodeterminazione trova nel principio di integrità territoriale degli Stati un’importante eccezione, sancita al par. 7 della citata Dichiarazione dell’AG del 1960. In virtù di tale norma, l’autodeterminazione va coordinata con i legami storico-geografici del territorio rispetto a quelli dello Stato dominante. Interpretato in tal modo, il principio di integrità territoriale costituisce un potente freno giuridico alle pretese secessionistiche di un popolo. La Carta di Parigi del 1990, elaborata in ambito OSCE e significativa di una certa tendenza del diritto internazionale odierno a considerare con crescente sensibilità la tematica dell’autodeterminazione interna, si pronuncia anch’essa in tal modo. Anche sul piano della giurisprudenza interna le cose non cambiano. La Corte Suprema russa, nei casi del Tatarstan e della Cecenia, ha interpretato i due principi come appena esposto per negare la possibilità di una secessione unilaterale dalla Federazione. Anche la Corte Suprema canadese, nel caso del Québec, ha negato che una provincia o una regione, anche quando etnicamente differenziata dal resto dello Stato, abbia il diritto a secedere al di fuori delle tre ipotesi tipiche del principio di autodeterminazione dei popoli.
Pur in assenza di un diritto a secedere, però, un popolo, se ne ha la forza politica o militare, può di fatto staccarsi da uno Stato. In altre parole, il diritto internazionale non prevede il diritto a secedere, ma non per questo non riconosce, sulla base del principio di effettività, il distacco e la conseguente nascita di un nuovo Stato, purché sovrano ed indipendente. Ai fini della soggettività di diritto internazionale, pertanto, risulterà sufficiente che un governo risulti capace in fatto di esercitare in via esclusiva il potere di imperio sulla comunità territoriale distaccatasi, nell’ambito di un ordinamento giuridico non derivato, cioè non dipendente da altri Stati (in tal senso è inteso il requisito dell’indipendenza).
Quanto fin qui chiarito vale purché non vi sia aiuto da parte di Stati terzi, i quali hanno l’obbligo di rispettare l’integrità territoriale dello Stato che subisce la secessione. Come ha rilevato il professor Antonio Cassese, «se si dimostra che questo è il risultato di un’azione autonoma dei kosovari, allora non vi è nessuna violazione del diritto internazionale». Ovviamente, la dimostrazione del carattere autonomo dell’azione kosovara è largamente opinabile in ambo i sensi e, essenzialmente, oggetto dell’attuale stallo diplomatico in seno al CdS.
Sulla base di tali elementi possono quindi respingersi i timori di taluni sulla portata della statualità del Kosovo proclamatosi indipendente. In tal senso la pratica del riconoscimento del nascente Stato da parte degli Stati preesistenti a cui si assiste in questi giorni non ha valenza costitutiva della personalità internazionale dello Stato da riconoscersi. In dottrina si afferma che il riconoscimento di Stati è un atto politico, pertanto discrezionale, e non giuridico. Gli Stati preesistenti sono liberi di riconoscere uno Stato sovrano ed indipendente, così come di non riconoscerlo, essendo la decisione legata a considerazioni di carattere diplomatico. Il riconoscimento, quindi, non ha altro significato che una presa d’atto, sul piano storico, dell’esistenza di uno Stato che sia tale giuridicamente – cioè: sovrano ed indipendente – secondo la valutazione posta in essere dallo Stato recognoscente. E la sua utilità è circoscritta all’instaurazione di normali relazioni diplomatiche tra i due Stati e, più in generale, delle varie forme di cui si sostanzia la vita di relazione internazionale. Non è un caso che le conclusioni del documento comune approvato dal Consiglio dei ministri degli Esteri dell’UE del 18 febbraio lascino facoltà ai singoli Stati membri di decidere liberamente in merito al riconoscimento dello Stato kosovaro «in linea con le pratiche nazionali e le norme giuridiche».
Assunto quindi che la secessione kosovara, considerata di per sé, assume una valenza giuridica a livello internazionale al di fuori e a prescindere dall’ambito di applicazione del principio di autodeterminazione dei popoli, bensì in virtù della mera situazione di fatto venutasi a creare, è utile infine approfondire le diverse interpretazioni giuridiche fornite dalle parti coinvolte nella crisi al testo-chiave per una valutazione di legittimità della secessione di Pristina dalla Serbia, cioè la risoluzione 1244 (1999) del CdS.
La risoluzione 1244 ordinava al governo della RFJ, al termine dell’intervento aereo della NATO di quell’anno, di ritirare tutte le forze armate federali dal territorio del Kosovo e di permettervi l’avvio di un’amministrazione provvisoria da parte dell’ONU. La risoluzione rinviava indefinitamente la soluzione politica della crisi in tal maniera. L’argomentazione fornita dalla maggior parte degli Stati membri dell’Unione Europea e dagli Stati Uniti al riguardo è che, poiché la risoluzione disponeva l’invio di una missione «civile e militare internazionale che facilit[asse] un processo politico volto a determinare il futuro status internazionale del Kosovo» e poiché tali principi furono concordati, prima dell’adozione della risoluzione in esame, da una riunione dei ministri degli Esteri degli Stati membri del G8, implicitamente questa clausola giustificherebbe giuridicamente l’esito finale – l’indipendenza di Pristina – di tale processo politico. In pratica, gli Stati occidentali asseriscono che l’indipendenza è il risultato di un percorso politico caratterizzante lo spirito della risoluzione 1244. Nello stesso senso si pronuncia il documento adottato dall’UE per legittimare la missione Eulex, approntata in ambito PESD.
La posizione della Serbia, della Federazione Russa, della Cina e di una minoranza degli Stati membri dell’UE (Grecia, Spagna, Cipro, Slovacchia, Bulgaria e Romania) che tuttavia, astenendosi in sede di votazione, non si sono opposti all’approntamento della missione Eulex da parte dell’UE, consiste in un rifiuto categorico di una siffatta impostazione. Questi Stati affermano che non esiste alcuna risoluzione del CdS che autorizzi la secessione del Kosovo. Il riferimento argomentativo è dato dal paragrafo 10 della risoluzione 1244 che prevede espressamente, e con efficacia indiscutibilmente vincolante per le parti coinvolte, la concessione al Kosovo di «una sostanziale autonomia» all’interno dell’allora RFJ. Poiché tale disposizione è l’unica tra quelle della risoluzione 1244 a statuire in merito allo status della regione kosovara, ne discende che l’ipotesi dell’indipendenza è apertamente esclusa dal testo. Inoltre, con riferimento alla missione Eulex, i governi di Belgrado e Mosca rilevano come la risoluzione 1244 autorizzi missioni di organizzazioni internazionali nel territorio del Kosovo purché «sotto gli auspici dell’ONU», elemento di cui sarebbe quindi sprovvista la missione UE.
La posizione avanzata dagli Stati occidentali appare molto debole. La prova è data dal fatto che il documento comune dell’UE adottato in ambito PESD e relativo alla missione Eulex, dopo aver giustificato l’esito finale del processo politico richiamato nella risoluzione 1244, tuttavia si affretta a riconoscere che i riferimenti del Preambolo al Kosovo come parte integrante del territorio della RFJ e al rispetto del principio di integrità territoriale della RFJ non siano vincolanti. Notoriamente, le clausole preambolari delle risoluzioni del CdS non sono infatti vincolanti, al contrario del testo dispositivo, anche nei casi in cui queste siano adottate ex Capitolo VII della Carta Onu. Ma risulta quantomeno paradossale e in ultima istanza da respingere nella posizione degli Stati occidentali l’argomentazione secondo la quale ciò che è espressamente affermato nella parte dispositiva della risoluzione – l’integrità territoriale della RFJ e lo status di mera autonomia del Kosovo – non debba considerarsi vincolante, mentre ciò che fu concordato in un foro politico multilaterale privo di poteri vincolanti ed estraneo al CdS, quale è il G8, e che non risulta inequivocabilmente sancito nella risoluzione – ovverosia che l’esito finale del processo politico potesse prevedere l’indipendenza del Kosovo – risulti invece vincolante, seppur implicitamente.
Alla luce di questa analisi non può ammettersi la legittimità giuridica del processo di secessione del Kosovo, ferma restando, in virtù del principio di effettività sul piano meramento storico e di un progressivo e connesso consolidamento delle istituzioni del nascente Stato da ipotizzarsi nel tempo, la piena configurabilità quale soggetto di diritto internazionale dello Stato kosovaro, in quanto sovrano ed indipendente.
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