La nostra banca centrale ha opportunamente ritenuto di pubblicare sul proprio sito un documento chiarificatore della legge 5/2014, che stabilisce (tra molte altre cose, in ordine rigorosamente sparso) il nuovo assetto proprietario di Palazzo Koch. E’ un documento interessante ed utile, per ripulire il campo da alcune tesi complottarde piuttosto etiliche. Ma in alcuni passsaggi è anche un esempio di imbarazzo istituzionale. Il mondo notoriamente non è perfetto.
Andiamo con ordine, almeno noi che ne abbiamo la presunzione. Bankitalia si conferma istituto di diritto pubblico, e su questo non ci piove. Come commenta la nota, la riforma pone le condizioni per avere una molteplicità di “partecipanti al capitale”, espressione molto opportuna in luogo di quella decisamente più “privata” e privatistica di “azionisti”, non solo perché il capitale della Banca è suddiviso in quote e non in azioni. Tra i nuovi “partecipanti” vengono inclusi, in aggiunta a banche ed assicurazioni, anche fondi pensione e fondazioni. Su quest’ultime ci sarebbe da discutere, visti i risultati non particolarmente brillanti dei loro investimenti assai poco diversificati, ma ci torneremo.
Il documento di Bankitalia analizza poi la famigerata “legge sul risparmio” del 2005, quella rimasta inapplicata (e di cui abbiamo parlato molti anni addietro, qui). In base a quella legge, gli “azionisti” avrebbero dovuto essere indennizzati in ipotesi di acquisto delle loro quote da parte del Tesoro o di altra struttura pubblica. Occhio a questo passaggio, è importante. Ai privati sarebbe quindi dovuto andare un indennizzo pari alla stima del capitale della banca, cioè tra 5 e 7,5 miliardi di euro. Scrive la Banca d’Italia nel documento pubblicato ieri:
«In caso di statalizzazione della Banca una tale somma sarebbe stata a carico del bilancio pubblico, cioè del contribuente»
Ciò pare implicare che oggi le cose andranno diversamente. Anche di questo parleremo tra poco. Vediamo la diffusione della partecipazione al capitale. Numericamente più ampia, visto che con la nuova legge i partecipanti dovranno essere non meno di 34. Vi è poi l’effetto sul calcolo dei dividendi, uno degli elementi di maggior polemica politico-cospirazionistica. Chiarisce la Banca d’Italia:
«(…) i dividendi per i partecipanti erano fissati in un modo complicato che li legava alle riserve patrimoniali della Banca, come se tali riserve fossero di proprietà dei partecipanti stessi. Secondo il vecchio statuto, ai partecipanti potevano essere assegnati dividendi fino al 4% delle riserve complessive; queste erano pari a circa 15 miliardi nell’ultimo bilancio, quindi i partecipanti avrebbero potuto ricevere l’anno scorso fino a 600 milioni in dividendi, anche se ne hanno ottenuti solo 70, pari allo 0,5%»
Questo è interessante, perché riconosce che le riserve della banca centrale non sono né possono essere considerate in modo indifferenziato rispetto ai partecipanti privati al capitale.
«Ma le riserve nel patrimonio della Banca si accumulano anno dopo anno grazie ai proventi dell’attività classica di una banca centrale, il “battere moneta”. In quanto derivanti da una tipica attività di interesse pubblico, queste riserve (così come le altre poste patrimoniali presenti nei conti della Banca d’Italia, incluso ovviamente l’oro) non sono di proprietà dei partecipanti, i quali possono vantare diritti solo in relazione al capitale in senso stretto della Banca, diritti assegnati loro dalla Legge Bancaria del 1936 e ora rivalutati. Questo viene chiarito con la riforma»
E meno male, diciamo. Chiarito questo punto dirimente sulla tipologia di riserve “distribuibili”, si viene ai dividendi. Prima della riforma, essi erano variabili in proporzione delle riserve. Di tutte le riserve. Con progressione teoricamente infinita.
«Con la riforma, i dividendi sono ora una quota (non più del 6%) del capitale in senso stretto, il quale è espresso in cifra fissa (7,5 miliardi): quindi, i dividendi non potranno mai eccedere i 450 milioni. Quelli che saranno effettivamente pagati dipenderanno ovviamente ogni anno dalle condizioni del bilancio; tuttavia, l’intero esercizio è costruito in modo che vi sia equivalenza tra i flussi complessivi di dividendi calcolati con i criteri pre e post riforma»
Altro punto molto rassicurante e razionale. Non bisognerebbe mai scordare che questa riforma è stata di fatto scritta a Palazzo Koch, anche se tutti negheranno. Questo dovrebbe servire per quanti straparlano di “dividendi al 6%, una follia”. Le cose non stanno così, e nel chiarimento viene pleonasticamente precisato che conteranno le “condizioni del bilancio”. Ovviamente, anche in questo caso servirà che la tecnocrazia della Banca d’Italia vigili su suggestioni di sovradistribuzione degli utili, che comunque erano ampiamente possibili anche sino a ieri l’altro.
Circa l’impatto sulla patrimonializzazione delle banche, esso sarà in media di 40 punti-base per i partecipanti al capitale, in discendenza “dell’applicazione delle norme contabili internazionali”. Come dire “così fan tutti, quindi anche noi”, oppure che ora abbiamo un “level playing field“, come direbbero gli anglosassoni, veri e aspiranti tali. E comunque, niente da fare per l’asset quality review della Bce. I tempi del nostro legislatore sono troppo lenti pure per quelli della flemmatica burocrazia europea, che ogni volta deve mettere d’accordo da 18 a 28 paesi.
Cui prodest? Dopo aver correttamente premesso che l’aumento del valore delle quote è il risultato contabile dello spostamento di parte delle riserve a capitale, il documento di Bankitalia ricorda ad abundantiam che la distribuzione degli utili dipende dalle dinamiche di produzione dei medesimi e dalle scelte di distribuzione. Spiegato qui:
«Il risultato discende dallo svolgimento delle attività istituzionali della Banca, che implicano costi e ricavi. Sull’utile lordo la Banca paga allo Stato innanzitutto le imposte. Dall’utile al netto delle imposte la Banca preleva i dividendi per i partecipanti, alimenta le riserve statutarie nella misura massima del 40 per cento e retrocede quel che residua allo Stato. Ad esempio, nel 2013, con riferimento all’esercizio 2012, la Banca ha versato allo Stato un totale di 3,4 miliardi, di cui 1,9 per imposte e 1,5 per retrocessione del residuo finale»
A fine paragrafo c’è una considerazione che pare tecnica ma è “politica”, a conferma dell’identità dell’autore della riforma:
«I risultati di una simulazione di quanto la Banca avrebbe dovuto riconoscere complessivamente allo Stato nei passati dieci anni se fosse stato in vigore il nuovo statuto, tenendo conto di entrambi gli effetti, indicano che si sarebbe potuto mantenere sostanzialmente invariato il flusso di risorse trasferito alle casse dello Stato»
Ancora una volta, prudenza, prudenza, prudenza e puntuale rivendicazione delle scelte di distribuzione degli utili, effettuate in isolamento dagli “azionisti” privati. E veniamo al punto più critico, che è anche quello più debole di tutta la costruzione, inclusa la “spiegazione” di Bankitalia: l’eventuale riacquisto di azioni proprie. Si parte con una domanda “da uomo della strada”, possibilmente indignato:
(Se nessuno comprerà le quote in eccesso, il “riacquisto” da parte della Banca d’Italia non costituisce un trasferimento di soldi pubblici alle banche venditrici?)
Si noti che questa ipotesi sarebbe l’equivalente dell'”esproprio” con indennizzo alle banche private, in caso la legge del 2005 fosse stata realmente applicata. La legge 5/2014 prevede un triennio per la cessione delle quote eccedenti il 3%. Giusto per dire, Intesa Sanpaolo deve vendere ben il 39% del capitale di Bankitalia, cioè deve trovare almeno 13 (tredici) investitori istituzionali, con sede legale in Italia, e tali da incontrare il gradimento di Bankitalia (c’è anche questo aspetto, tra le righe). Che succederebbe se ciò non avvenisse entro i termini, cosa a nostro giudizio piuttosto probabile?
«(…) la Banca può acquistare essa stessa, temporaneamente, parte delle quote in mano ai partecipanti che ne posseggono più del limite del 3 per cento e non riescano a scendere in tempo utile al di sotto di tale limite. In ogni caso le quote non resterebbero in capo alla Banca ma sarebbero ricollocate al più presto sul mercato. La Banca d’Italia si limiterebbe quindi a esercitare un ruolo di intermediazione»
Interessante, pare una voce dal sen fuggita, o un wishful thinking o una precisa linea d’azione già decisa dalla Banca d’Italia (molto probabile che alla fine sia questo). Un vero intermediario non dovrebbe comprare “a fermo” attendendo di rivendere, ma agire da tramite tra venditore e compratori. In questo caso la Banca d’Italia non spenderebbe i soldi dei cittadini italiani, e vissero tutti felici e contenti. Su questo si punterà, scommettiamo un euro di carta. Ma quanto varrà una quota di Banca d’Italia, date le sue peculiarità? E soprattutto, esisterà un “mercato” delle quote? Per Bankitalia
«(…) Inoltre, l’affermazione di un “mercato” per le quote della Banca d’Italia dipende dalla percezione della “qualità” dell’investimento. Ora, è presumibile che le quote avranno un rendimento non inferiore a quello di strumenti analoghi a parità di rischiosità (rendimento che dipende sostanzialmente dagli utili generati nelle attività investite, a fronte delle passività accese per svolgere le sue funzioni); inoltre, andrà considerato il valore simbolico dell’essere “partecipante al capitale della Banca d’Italia”. Il numero di potenziali acquirenti è alto, l’investimento di ciascuno può essere relativamente limitato. In ogni caso, il Consiglio Superiore della Banca vigilerà sul rispetto dei requisiti di onorabilità in capo agli esponenti aziendali e ai partecipanti dei soggetti acquirenti previsti dalla rilevante disciplina normativa e statutaria»
Questo è un punto dialetticamente assai debole. Il rischio-rendimento di una banca centrale è cosa del tutto peculiare e non assimilabile a quello di una banca commerciale. Possiamo ipotizzare che le quote renderanno “il giusto”, magari non troppo meno della media di un Btp. Diversamente, per quale motivo una fondazione o un fondo pensione dovrebbero comprarsele? La risposta di Bankitalia è molto candida: perché c’è un “valore simbolico”. E anche una moral suasion piuttosto incisiva, pensiamo. E comunque, riguardo le fondazioni, appare difficile che un investimento di questo tipo possa fare peggio di quelli compiuti sinora. E’ poi, è tutto networking, alla fine. E comunque, per essere ancora più chiari: se vale l’impegno di Bankitalia, Intesa e le altre si scordino domattina di andare a Palazzo Koch e dire: “scusate, voglio realizzare l’investimento, comprate subito voi e poi vi cercate un compratore per i fatti vostri?”
Quindi, riepilogando per chi ha fretta e per chi non riesce a stare senza appiccicare etichette ai pensieri altrui:
- La riforma della struttura proprietaria della Banca d’Italia era attesa da molto tempo, ed era ancora più urgente dopo la legge sul risparmio del 2005, rimasta inapplicata;
- E’ assai probabile che la riforma sia il sottoprodotto di una impellenza assai più venale: la copertura della porcata chiamata Imu, e delle disperate esigenze di trovare i soldi su base una tantum, con proposte lisergiche come quella di valutare il capitale di Bankitalia usando multipli di mercato come quelli delle banche commerciali;
- La riforma attua una modesta e non decisiva ricapitalizzazione delle banche partecipanti, diluita nel tempo per non urtare suscettibilità europee, oltre a riallinearsi alle presunte best practices europee, così come espresse nei principi contabili internazionali;
- La riforma discerne tra riserve distribuibili, quelle in linea teorica assimilabili alle attività “privatistiche” della Banca d’Italia, e quelle non distribuibili, formatesi in conseguenza dell’attività di central banking (signoraggio, oscillazione prezzi riserve auree – quest’ultima implicita ma ovvia, se i barbari non arriveranno a Palazzo Koch);
- La riforma non innalza automaticamente il flusso di dividendi alle banche partecipanti, e Bankitalia “promette” sobrietà e morigeratezza nella distribuzione degli utili. Bene, se non cade il fortino di Bankitalia, che ha scritto la norma e che tale norma dovrà applicare. Non a caso, per proteggersi da cupidigie di varia natura è stato posto un tetto alle erogazioni, e tutta la riforma è calibrata per ottenere una invarianza ed equivalenza di lungo periodo al payout degli utili storicamente distribuiti dalla nostra banca centrale;
- Obiettivo implicito e sommamente politico è che Bankitalia non acquisti “a fermo” le quote eccedenti ma faccia networking e moral suasion su istituzioni finanziarie nazionali. Solo in quel caso il “denaro dei cittadini” non sarà versato ai banchieri. Questi “chiarimenti” suggeriscono una forma di impegno pressoché ufficiale e quasi solenne della Banca d’Italia. Anche qui, dio protegga il Direttorio. Poi, è auspicabile che Bankitalia operi attivamente per evitare la formazione di salotti sdruciti e pignorati, ma quello è altro discorso;
- Quanto al concetto di “mercato” per le quote di Bankitalia, non scherziamo, per favore. Non c’è alcun mercato ma solo una operazione di spalmatura e redistribuzione “istituzionale”, che richiederà molto tempo e molta pazienza mediatrice;
- Si poteva fare meglio? Come sempre sì. Ma anche molto peggio, visto lo spirito del tempo che pervade questo disgraziato paese;
In questo senso siamo nelle mani del “buonsenso”, come scritto sempre qui giorni addietro, oltre che di una tecnostruttura illuminata o presunta tale, che sinora è riuscita (in media storica) a fare meno danni della classe politica. E questo è un auspicio.
P.S. Menzione d’onore per il premio “alta gradazione alcolica” alla sorellina d’Italia Giorgia Meloni, che ieri sera a Piazzapulita ha detto una cosa di questo tipo: “se volessimo uscire dall’euro saremmo costretti a ricomprarci la nostra banca centrale dai banchieri privati”. Se le sciocchezze fossero materia imponibile, alcuni personaggi subirebbero aliquote confiscatorie. Detto in termini meno polite: basta con le c@zzate, please. E questo è un altro auspicio, che sarà assai difficile vedere esaudito.
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