di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano
Negli ultimi giorni ha preso vigore il dibattito pubblico circa la necessità che l’Italia si doti di una cosiddetta bad bank, cioè di una struttura a cui conferire i crediti in sofferenza per ripulire lo stato patrimoniale e consentire alle banche di tornare a prestare, almeno in linea teorica. Il tema è molto importante, alla luce della valutazione degli attivi da parte della Banca centrale europea e dei successivi stress test, che potrebbero riservare sorprese non piacevoli al nostro paese.
Mario Draghi e la responsabile della vigilanza unica bancaria europea, la francese Danièle Nouy, vogliono svolgere una revisione sufficientemente rigorosa da produrre vittime tra gli istituti di credito. Le banche sono la maggior fonte di credit crunch sull’economia reale, per l’esigenza di ridimensionare i propri attivi e per il proprio grado di leva finanziaria. Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha incoraggiato una soluzione “di sistema”.
La creazione di una bad bank è sempre qualcosa di estremamente complesso e politicamente sensibile: basti pensare al prezzo di trasferimento dei crediti in sofferenza al nuovo veicolo, che presta il fianco a rischi di manipolazione e di conseguenza di porre in capo ai contribuenti le perdite, in caso di struttura pubblica. Il governo italiano ha smentito di essere contrario alla creazione di una bad bank. Dalle indiscrezioni sembrava invece che il Tesoro la ritenesse controproducente e suscettibile di innescare ulteriori declassamenti del nostro rating sovrano. Ma l’assenza di riconoscimento del problema può portare a uno stigma contro le banche italiane, viste come zombie con in pancia crediti valutati in modo irrealistico e spesso pure divenuti inesigibili.
La realtà è che, proprio come accaduto in Spagna, il nostro sistema bancario appare dualistico. Da un lato ci sono i grandi istituti che hanno retto l’onda d’urto delle sofferenze ed hanno messo mano a ripuliture importanti dei bilanci; dall’altro ci sono realtà medie e piccole per le quali la situazione è molto più incerta ed opaca. I maggiori istituti si stanno muovendo autonomamente, negoziando la cessione di pacchetti di crediti in sofferenza ad intermediari internazionali specializzati, e ciò è molto utile a livello reputazionale, fuori dal Paese. Di solito, la cessione di prestiti in sofferenza avviene alla fine di una fase recessiva, quando la ripresa permette di stabilizzare e invertire il trend delle sofferenze. Questo è certamente un segnale positivo, ma non bisogna illudersi: questa è una crisi esistenziale, per la nostra economia più che per altre, e ciò che appare come “ripresa” potrebbe in realtà essere solo una fase di remissione prima di nuove ricadute.
Ma con la revisione degli attivi bancari ormai imminente, ampi settori del nostro sistema bancario sono di fronte a ricapitalizzazioni che si preannunciano impegnative, anche per la presenza di azionisti istituzionali per i quali mettere mano al portafoglio potrebbe essere impresa disperata. Verosimile che il nostro governo si opponga all’idea di richiedere assistenza alla Ue per ottenere fondi con i quali ricapitalizzare il sistema bancario (perché ciò ci metterebbe sotto tutela formale e innalzerebbe pericolosamente il nostro già elevato rapporto debito-Pil), ma qualcosa dovrà essere fatto, sapendo tuttavia che la semplice fusione di banche fragili non è una soluzione ma spesso accelera i problemi e la resa dei conti. E forse la riflessione di Visco sottende questo specifico timore. In questo senso, la nota di lunedì del ministero dell’Economia, che apprezza la formazione di consorzi tra banche private e promette l’appoggio del governo “ma senza fondi pubblici”, potrebbe significare l’entrata in scena di un veicolo fuori dal perimetro dei conti pubblici ma dotato di implicita garanzia pubblica, come la Cassa Depositi e Prestiti, per soccorrere soprattutto le banche minori.
Ma la cura dimagrante ai bilanci delle nostre banche non passa solo attraverso i crediti ormai inesigibili bensì anche attraverso quelli ancora performanti (in bonis). Da più parti si sollecita Mario Draghi e la Bce a trovare una soluzione al fenomeno del credit crunch. Nei mesi scorsi Draghi ha ipotizzato la possibilità che l’istituto di Francoforte possa acquistare “pacchetti” di crediti in bonis, le cosiddette cartolarizzazioni, come strumento per sbloccare il meccanismo di trasmissione del credito. Ma sinora nulla è accaduto, anche perché un mercato europeo delle cartolarizzazioni è di fatto inesistente, e la Bce non può inventarlo con un tratto di penna.
La crisi resta, il sistema bancario tende a perpetuarla, la causa e l’effetto si intrecciano in un perverso gioco di specchi. Sulla congiuntura pesano inoltre la crisi dei paesi emergenti e la difficile transizione cinese, che potrebbero assestare un colpo di freno all’economia globale. Non saranno improbabili messaggi di ottimismo a rappresentare la terapia, perché di psicosomatico in questa congiuntura c’è assai poco. I prossimi mesi saranno decisivi: pensare di gestirli con auspici e buone intenzioni sarebbe un errore fatale.
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