di Mario Seminerio
Proseguendo l’analisi dei miti legati al signoraggio, in questo post tentiamo di rispondere alle più comuni domande sull’assetto istituzionale ed il funzionamento della nostra banca centrale, dalla produzione di banconote agli scandali relativi alle inchieste del sito che mandava messaggi di spam sul genere: ” compro oro a Milano “. Cenni storici, formazione e destinazione dell’utile, cambiamenti previsti dal legislatore nella compagine proprietaria. L’obiettivo, come sempre, è quello di divulgare per demistificare.
La Banca d’Italia è privata?
No. La Banca d’Italia è un istituto di diritto pubblico. La cassazione, con la sentenza 16751 a sezioni riunite del 21 luglio 2006, ha affermato che la Banca d’Italia “non è una società per azioni di diritto privato, bensì un istituto di diritto pubblico secondo l’espressa indicazione dell’articolo 20 del R.D. del 12 marzo 1936 n.375“. La banca, pertanto, segue regole di funzionamento differenti da quelle di una normale società per azioni, come si evince anche dallo statuto, che assegna ai soci un numero di voti non proporzionale alle azioni possedute (limitando i voti dei soci maggiori).
Ma i suoi azionisti sono banche private. E allora?
Gli azionisti di Banca d’Italia sono le banche (oggi private) che discendono dagli istituti di credito (all’epoca pubblici) che nel corso del tempo sono entrati nel suo capitale. La Banca d’Italia è stata una società per azioni fino al 1936. In quell’anno venne convertita in Istituto di diritto pubblico dall’articolo 3 della legge bancaria del 1936 (ovvero il sopra citato regio decreto-legge 12 marzo 1936, n. 375, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 marzo 1938, n. 141, e successive modificazioni e integrazioni). Diciamo che esiste una proprietà formale in capo ad azionisti oggi privati, ma la Banca opera nell’ambito del diritto pubblico. Ciò implica, ad esempio, che lo status giuridico di ente pubblico esclude la possibilità di fallimento della Banca d’Italia e, tramite il suo intervento nei casi di crisi, la possibilità di fallimento delle banche private, garantendo la stabilità dell’intero sistema bancario italiano.
Però c’è un evidente conflitto d’interesse: i soci della Banca sono i gruppi bancari sul cui operato la Banca d’Italia è chiamata dalla legge a vigilare. E’ così?
Non è così. In teoria, il fatto che le azioni della Banca d’Italia debbano appartenere solo a banche, assicurazioni ed enti pubblici economici (ad esempio l’INPS), è da alcuni considerata un’anomalia foriera di possibili conflitti di interesse. Nella realtà, però, le quote di partecipazione detenute dalle banche, notoriamente nella storia non hanno mai consentito a queste la benché minima possibilità di incidere sugli indirizzi di vigilanza, né su qualsiasi altro aspetto dell’attività della Banca d’Italia. Il potere dei soci si limita all’approvazione del bilancio ed alla nomina del Consiglio Superiore, che svolge funzioni amministrative, e partecipa al processo di nomina dei membri del Direttorio e del Governatore, che esercitano il potere di vigilanza. I problemi veri sono altri.
E quali?
La legge 262/2005, recante “Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari” stabilisce, all’articolo 19, comma 10, che
(…) con regolamento da adottare ai sensi dell’articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, è ridefinito l’assetto proprietario della Banca d’Italia, e sono disciplinate le modalità di trasferimento, entro tre anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, delle quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia in possesso di soggetti diversi dallo Stato o da altri enti pubblici.
A quanto dovranno essere valorizzate le azioni della Banca d’Italia detenute dalle banche azioniste? Quesito a cui è molto difficile dare risposta. Quello che è certo è che da una valorizzazione a prezzi “di mercato” di tali quote deriverebbe un enorme danno per i contribuenti, ed un altrettanto elevato guadagno per le banche private azioniste. Altro che signoraggio! E tutto per sanare un conflitto d’interesse che neppure esiste. Un’autentica levata d’ingegno del governo Berlusconi, non c’è che dire.
D’accordo, ma gli azionisti privati percepiscono l’utile della Banca d’Italia.
E’ vero, ma in misura del tutto trascurabile. Il capitale sociale della Banca ammonta a soli 156.000 euro, versati nel 1936. Secondo l’articolo 3 dello statuto il capitale sociale “è suddiviso in quote di partecipazione nominative di 0,52 euro ciascuna, la cui titolarità è disciplinata dalla legge“. Le quote di partecipazione sono costituite da certificati nominativi (art.4). Ai soci sono distribuiti dividendi per un importo fino al 6% del capitale e, su approvazione del Consiglio Superiore, un ulteriore 4% del valore nominale del capitale (art.39), cui si aggiunge “una somma non superiore al 4% dell’importo delle riserve” quali risultano dal bilancio dell’anno precedente prelevata dai frutti annualmente percepiti sugli investimenti delle riserve, sempre su approvazione del Consiglio superiore (art.40). Gli utili netti vengono per il resto distribuiti come segue. Il 20% degli utili netti conseguiti deve essere accantonato al fondo di riserva ordinaria. Col residuo, su proposta del Consiglio superiore, possono essere costituiti eventuali fondi speciali e riserve straordinarie mediante utilizzo di un importo non superiore al 20% degli utili netti complessivi. La restante somma è devoluta allo Stato. (art 39);
Si legga la relazione al bilancio 2006 della Banca d’Italia, pagina 274:
L’utile lordo del 2006, prima dell’accantonamento al fondo rischi generali nonché delle imposte, è stato pari a 1.199 milioni (1.688 nel 2005). Il risultato tiene conto della circostanza per cui, come previsto dallo Statuto della Banca, il rendimento degli investimenti delle riserve ordinaria e straordinaria (566 milioni) non concorre alla formazione dell’utile in quanto assegnato alle riserve stesse.
La flessione di 489 milioni rispetto al 2005 dipende dall’andamento dei risultati della negoziazione e della valutazione di titoli e divise (in diminuzione per 969 milioni, da un valore positivo di 614 rilevato nel 2005 a uno negativo di 355 nel 2006); è migliorata, invece, da 2.625 a 3.241 milioni la redditività ordinaria della Banca (margine di interesse e dividendi).
In particolare:
– gli utili in cambi sono diminuiti di 463 milioni. Nel 2005 erano stati rilevati utili consistenti grazie alla vendita di attività in dollari statunitensi nell’ambito di un’azione di ricomposizione delle riserve valutarie in favore delle attività denominate in sterline inglesi;
– i risultati della negoziazione di titoli si sono ridotti di 289 milioni. Gli utili del 2005 erano scaturiti dalla cessione di azioni iscritte nel comparto non immobilizzato;
– le svalutazioni derivanti dall’andamento dei cambi sono aumentate di 230 milioni, principalmente a causa del deprezzamento dello yen nei confronti dell’euro. Il deprezzamento del dollaro non ha prodotto effetti sul conto economico in quanto le svalutazioni hanno trovato copertura nel conto di rivalutazione alimentato alla fine del 2005;
– il positivo andamento del margine di interesse (+613 milioni) è scaturito dal rialzo dei tassi di interesse e dalla maggiore consistenza delle attività fruttifere consentita dal significativo incremento delle banconote in circolazione nell’Eurosistema (in media +11 per cento rispetto al 2005);
– nell’ambito dei costi operativi sono cresciute le spese per pensioni e indennità di fine rapporto (+104 milioni) in relazione al più elevato numero di cessazioni rilevato nel 2006. Sono diminuiti gli ammortamenti (-60 milioni), in quanto dal 2006 i terreni su cui sono costruiti i fabbricati dell’Istituto non sono più ammortizzati;
– hanno mostrato una riduzione le sopravvenienze attive (-53 milioni), che nell’esercizio precedente includevano quelle derivanti dalla riduzione del fondo imposte attuata per il venir meno di rischi di eventuali contenziosi tributari.
A valere sul risultato lordo (1.199 milioni), il Consiglio Superiore ha deliberato un accantonamento di 396 milioni al fondo rischi generali. È proseguito quindi il reintegro, già avviato nel 2005 (703 milioni), dei fondi rischi, utilizzati per 4 miliardi nel triennio 2002-04 per fronteggiare rilevanti minusvalenze. Tenendo conto delle imposte di competenza dell’esercizio (669 milioni), l’utile netto del 2006 è stato pari a 134 milioni, con un aumento di 84 milioni rispetto al 2005.
Ma come, l’utile della Banca d’Italia non è frutto esclusivo del signoraggio?
Nemmeno per idea. La Banca d’Italia svolge molte funzioni del tutto simili a quelle delle banche commerciali: così, nel suo conto economico figurano in avere voci quali il margine d’interesse (la differenza tra l’interesse ottenuto sugli impieghi e quello pagato sui depositi), e dividendi. Oltre alla tradizionale funzione creditizia vi sono anche proventi generati dalla gestione del portafoglio di proprietà. In questo ambito, la Banca d’Italia è esposta al rischio di mercato, cioè a perdere soldi o a guadagnarne, ad esempio per effetto di movimenti del mercato dei cambi e degli altri mercati finanziari. Questo rischio operativo di mercato è ben illustrato dai dettagli del contributo alla formazione dell’utile elencati nella relazione di bilancio, di cui sopra.
D’accordo, ma insomma, a quanto ammonta l’utile da signoraggio?
Leggendo a pag. 312 della Relazione al bilancio 2006 della Banca d’Italia si scopre che “il Consiglio direttivo della BCE ha deciso, come per il 2005, di non riconoscere alle BCN partecipanti l’intero ammontare del reddito da signoraggio della BCE, pari a 1.319 milioni, dei quali 241 riferibili all’Istituto (158 nel 2005). La somma è stata destinata ad alimentare un fondo diretto a fronteggiare i rischi di cambio, di tasso di interesse e di prezzo dell’oro“. Quindi, non solo l’utile da signoraggio della Banca Centrale Europea è minimo, rispetto a dimensioni e funzioni dell’istituto di Francoforte, ma addirittura la distribuzione di tale utile alle Banche Centrali Nazionali (BCN) non è proprio avvenuta.
Solo 134 milioni l’utile 2006 della Banca d’Italia? E sono andati alle banche azioniste?
Solo in minima parte, sulla base dei criteri di ripartizione statutari elencati sopra. Come si evince dai dati di conto economico della Banca d’Italia per il 2006, dei circa 133,8 milioni di euro di utile netto, 80,2 milioni sono stati attribuiti allo Stato; 26,7 milioni alla riserva ordinaria; altrettanti alla riserva straordinaria. Alle banche azioniste sono stati attribuiti solo 15.600 (quindicimilaseicento) euro, di cui 9.360 rappresentano il 6 per cento del valore nominale del capitale azionario della Banca d’Italia da esse detenuto, ed i restanti 6.240 costituiscono la remunerazione aggiuntiva, pari al 4 per cento del capitale sociale, deliberata dal Consiglio Superiore.
Aggiornamento del 30 gennaio 2014 – Il governo ha deciso di ricapitalizzare le banche italiane dalla porta di servizio, non solo e non tanto attraverso l’erogazione da parte della Banca d’Italia di dividendi, a valere su utili netti, che non potranno comunque eccedere il 6% del capitale rivalutato della banca centrale (quindi l’importo di 450 milioni di euro annui in dividendi è solo un massimo teorico, per avere idea della grandezza guardare qui), ma soprattutto attraverso il riacquisto (dalle banche) da parte della medesima di proprie quote eccedenti il 3%. Decisione assai discutibile, gravida di potenziali scompensi futuri di varia natura, oltre che del rischio non trascurabile di finire un giorno a distribuire a banche private l’utile da signoraggio della Banca d’Italia o di rivalutazioni che in nessun caso hanno natura riveniente da attività privata e privatistica del nostro istituto centrale. Si è partiti con l’idea di fare cassa minima per pagare parte della maledetta Imu prima casa 2013, si è finito col dirottare la creatività verso ambiti più ampi e rilevanti. Ancora una volta, non si può che sperare che il buonsenso prevalga.
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