di Andrea Gilli

Due amici diversi del partito FARE mi chiedono di commentare una recente discussione sulla vendita di AVIO, azienda aerospaziale specializzata nei sistemi di propulsione. Premettendo che l’avere amici attivi in politica non implica una mia sottoscrizione alle loro idee, mi permetto di intervenire nel dibattito.

AVIO è un piccolo gioiello industriale: un’azienda solida, con alle spalle una lunga fila di bilanci in utile, numerosi progetti di ricerca e, infine, notevoli successi, tra cui spicca il vettore VEGA.

Attualmente AVIO è controllata da Finmeccanica (15%) e da un fondo di investimenti straniero, Cinven (81%). Quest’ultimo sarebbe però intenzionato a dismettere le proprie quote (la parte civile dell’azienda è già stata venduta a GE a fine 2012). Arriviamo dunque agli sviluppi recenti: visti gli attuali problemi, Finmeccanica non è in grado di sostituire Cinven. Dall’altra parte, molti temono una vendita all’estero dell’azienda, per i suoi risvolti negativi a livello industriale. Dunque, che FARE?

Fondamentalmente, ci sono due posizioni. La prima consisterebbe nel lasciare libero il mercato: Cinven dovrebbe vendere al migliore offerente senza curarsi del suo passaporto. Altrimenti, si correrebbe il rischio di creare l’ennesimo carrozzone statale. La seconda vorrebbe invece mettere una serie di paletti volti a proteggere l’italianità di AVIO.

A mio modo di vedere, entrambe, se così espresse, sono sbagliate.

I fautori della presunta posizione liberale sostengono che un intervento statale porterebbe AVIO a ripercorrere le discutibili sorti di Alitalia. Questa visione ha una serie problemi di fondo, principalmente a livello empirico e teorico. In primo luogo, a livello empirico, nell’ultimo decennio, AVIO è già stata di fatto soggetta – più o meno esplicitamente – ai paletti del governo italiano. Basta vedere i poteri che vennero dati a Finmeccanica quando AVIO venne venduta al fondo americano di investimenti Carlyle Group. Non si capisce dunque perché i paletti che in passato hanno portato al successo dell’azienda oggi dovrebbero portare a risultati opposti.

Il secondo problema è di natura teorica. Da una parte, chiedere l’intervento del mercato in un contesto nel quale il mercato non esiste pare un po’ fuori luogo. Il mercato dei vettori spaziali non infatti è quello delle patatine. Esiste di fatto un solo cliente, il governo nazionale. A livello di offerta, invece, si è di fronte ad un oligopolio. Lasciare libero il mercato quando il mercato libero non è equivarrebbe a buttare un bambino nella fossa dei leoni, disarmato, sulla base dei nostri valori volti alla tutela degli animali. L’avevo spiegato ad Oscar Giannino più di un anno fa quando quest’ultimo suggeriva la totale privatizzazione di Finmeccanica per ovviare ai vari scandali interni all’azienda. Le stesse considerazioni valgono oggi.

Dall’altra parte, AVIO ha alcuni dei requisiti per essere definita un’azienda strategica: le sue competenze sono frutto di decenni di investimenti, di know-how tangibile e intangibile, l’azienda inoltre opera in un mercato imperfetto e, infine, sia direttamente che indirettamente – con il suo lavoro – l’azienda evita che l’Italia sia vittima delle ritorsioni oligopolistiche di altri Paesi. Mi spiego meglio: ogni prodotto industriale complesso come quelli nel campo della difesa e dell’aerospazio richiede lunghissime “filiere produttive” organizzate sia verticalmente che orizzontalmente (supply-chain). Al loro interno, alcuni componenti hanno dei cosiddetti effetti di lock-in: chi è in grado di produrli ha poteri monopolistici sulla filiera sottostante (e talvolta anche sovrastante). Alcuni dei prodotti di AVIO hanno queste qualità. Se l’Italia perdesse queste produzioni, i suoi competitor internazionali potrebbero sfruttare questi punti di debolezza per poter eliminare la competizione italiana anche in campi annessi. Fantascienza? Qualcuno lo vada a dire alla Svezia (per citare uno dei possibili esempi). I suoi caccia-bombardieri (Gripen) montano radar americani. Quando la Norvegia voleva comprare un nuovo aereo da combattimento, gli Stati Uniti fermarono temporaneamente il trasferimento dei loro radar alla Svezia. Sorprendentemente (?), la Norvegia ha poi selezionato i caccia-bombardieri americani.*

Questa discussione non deve però portare il lettore a pensare che la posizione opposta, quella dell’italianità – anche espressa in una versione moderata – sia priva di criticità. Eliminiamo dal tavolo l’idea che AVIO debba essere controllata da un attore italiano: se fino a ieri AVIO ha potuto lavorare in maniera eccelsa senza un azionista di maggioranza italiano, non si vede – anche in questo caso – perchè la situazione dovrebbe cambiare. Questa seconda posizione nota dunque, correttamente, l’importanza di porre dei paletti alla libertà di azione di un eventuale acquirente. Nello specifico, il futuro azionista di maggioranza dovrebbe garantire la permanenza della ricerca e delle competenze in Italia. Altrimenti si correrebbe il rischio che un competitore di AVIO, una volta acquistata l’azienda, proceda prima a spostarne all’estero le competenze e poi ad imporre all’Italia il suo potere quasi-monopolistico.

Allo stesso tempo, questa seconda linea di azione rischia però di non discutere alcuni problemi di fondo. In primo luogo: come mai l’attuale azionista vuole vendere? Qui è necessario un discorso più articolato. Finora la soluzione “dei paletti” ha funzionato perché AVIO poteva contare su un mercato di dimensioni sufficienti. Con i tagli ai bilanci della difesa in Europa, la riduzione degli investimenti nello spazio e la crescente competizione internazionale, verosimilmente il business di AVIO negli anni a venire si ridurrà. Un possibile acquirente potrebbe trovare poca convenienza nei paletti posti dal governo italiano. Detta in altri termini, i paletti rappresentano dei costi, nel momento in cui i ricavi scendono, questi costi possono finire per disincentivare dei possibili acquirenti, specialmente se si ha in mente di consolidare il settore o alcune attività di AVIO.

Siamo dunque di fronte ad un trade-off: con i paletti il rischio è di non vendere, senza paletti, si rischia di vendere a condizioni che non ci avvantaggiano. Poiché a vendere è Cinven, l’unica soluzione che resta sul tavolo consiste nell’ingresso della Cassa Depositi e Prestiti nel capitale di AVIO. Ciò ha ovviamente possibile risvolti positivi e negativi e lascia aperta una domanda fondamentale. Da una parte, AVIO dovrà competere sui mercati internazionali, pertanto la natura dell’azionista di maggioranza potrebbe avere relativamente poca importanza. Ovviamente, nel caso in cui quest’opzione venisse percorsa, sarebbe opportuno assicurarsi che il board di AVIO sia composto di persone di primaria competenza e senza conflitti di interesse. Dall’altra parte, c’è il rischio non secondario che l‘azienda finisca “dietro” la curva della tecnologia: la tecnologia evolve, e quando si vogliono proteggere competenze tecnologiche, c’è il rischio non secondario di finire in ritardo. Questa ovviamente non è una prerogativa delle aziende a controllo pubblico. Ma il problema va preso in considerazione. In parte, secondo alcuni VEGA – il progetto per cui AVIO è celebre – rischierebbe proprio di appartenere a questa categoria: con la miniaturizzazione dei satelliti, l’utilità di vettori di medie dimensioni starebbe scemando. Ma questa è solo speculazione.

La vexata questio è però un altra: se il nostro Paese non investe di più nello spazio, il futuro di AVIO sarà comunque segnato, a prescindere dalla soluzione selezionata per il suo controllo. Forse sarebbe più utile spostare l’attenzione su questo tema.

* Si veda Marc L. Busch (2001).

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2 risposte a “AVIO: Che FARE?”

  1. […] … secondo l’analisi di Andrea Gilli pubblicata su Epistemes! […]

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  2. Avatar Stefano Cianchi
    Stefano Cianchi

    Grazie per la chiara analisi espressa con un linguaggio lineare e comprensibile a tutti, nonostante la complessità dei prodotti e delle imprese coinvolte. Anche la sua sintesi finale, orientata al metodo con cui il caso è stato finora dibattuto, mi aiuta a capire (spero) il punto.
    Rifraso con parole mie per verificare se davvero ho appreso: prima di pensare alle teorie filosofico-economistiche, è opportuno valutare le forze competitive in gioco e poi decidere se partecipare al gioco e come.
    Il valore dell’impresa (intendendo anche l’indotto) dipende dalla capacità dell’impresa stessa di competere. Come peraltro l’azienda ha egregiamente fatto finora, ma non si sa per quanto ancora potrà farlo. La difesa “dell’italianità” via CDP o altro, non garantisce di per sé alcuna protezione o vantaggio. Per sopravvivere, specie in un ambiente tecnologico particolarmente competitivo, l’azienda deve sempre crescere di valore. Per alimentare la crescita, l’impresa deve poter disporre di risorse (umane, tecniche, finanziarie) adeguate al tasso di innovazione. Siano esse autogenerate dal successo nel mercato o siano fornite da un investitore. L’erosione del valore invece si determina quando l’impresa non ha le risorse necessarie.
    A quanto pare, il comportamento degli attuali venditori (Cinven) sembra indicare che non ritengano interessante investire oltre in quell’impresa. Quindi è logica conseguenza che, se non vendessero e non investissero, il valore dell’impresa scenderebbe nel tempo.
    Come Paese siamo quindi al punto in cui è obbligatorio chiederci se sia opportuno riportarci a casa un’impresa destinata probabilmente a perdere valore nel tempo.
    Se il Paese interviene, potremmo assistere ad un altro caso Alitalia dove in nome di una teorica “italianità” e di un business per nulla distintivo (in quel caso), abbiamo perso l’investimento del primo passaggio e ora ci apprestiamo a perder anche il secondo investimento. Senza per questo risolvere alcuno dei problemi fra i quali la disoccupazione. E con un enorme aumento della spesa pubblica del tutto ingiustificato.
    Ammesso che il Paese decidesse di considerare di giocare la partita Avio in vista di obiettivi ancora da comprendere, la domanda successiva sarebbe: esistono investitori italiani (pubblici o privati) in grado di fornire risorse in volume adeguato?
    Se non ne esistono, sarebbe preferibile vendere ad un investitore straniero al valore corrente, ancora ragionevolmente buono. Prendendosi il rischio che, nonostante le dichiarazioni, il compratore straniero sia effettivamente interessato a far crescere il valore dell’azienda. Il che è possibile, anzi probabile, dato l’ammontare dell’investimento per l’acquisto. Naturalmente è anche, marginalmente, possibile che l’acquisto sia invece orientato allo smantellamento locale dell’impresa.
    Ma per quale motivo dovrebbero smantellare l’impresa in Italia? Se dagli scenari escludiamo psicotici complotti mondiali, si presume che gli investitori sposterebbero persone e competenze fuori dal paese solo nel caso in cui le condizioni del sistema paese non fossero favorevoli alla crescita e alla competitività dell’impresa. Cosa purtroppo assai probabile.
    Peraltro credo che molte delle persone qualificate, i talenti, sceglierebbero anche loro, e molto volentieri, di trasferirsi in un qualche paese più favorevole al loro merito e alla loro capacità.
    Poiché finora l’impresa è stata in grado di competere, pur vivendo in questo costoso sistema paese, c’è da chiedersi: con quali azioni il paese può diventare attrattivo abbastanza da invitare e trattenere nuovi investitori?
    In via teorica ci sono diverse opzioni possibili.
    Lo stellone – sperare che il compratore straniero non si porti via le risorse. Sappiamo però che la repulsività del paese (costi, incertezze del diritto e complessità) spinge nella direzione “fuori dall’Italia”.
    Bloccare il passo – ad altro investitore straniero (ora l’81% del capitale è già straniero) che si può realizzare solo facendo rientrare in Italia le quote e facendo uscire dal paese il notevole prezzo di acquisto. Con relativo aumento della spesa pubblica. Non entro nel merito della possibile posizione di forza del venditore che debba negoziare con un compratore (lo Stato) sotto pressione politica. La pressione politica farebbe certamente lievitare il prezzo a spese dei cittadini tutti per accontentare i pochi o tanti, nessuno lo sa, che reclamano l’”italianità”.
    In entrambi i casi non sappiamo se gli investitori, stranieri e pubblici, metteranno a disposizione risorse sufficienti ad aumentare il valore dell’impresa. Non sappiamo nemmeno se possa avvenire sul territorio italiano.
    Nel primo caso (investitore straniero) può essere possibile e probabile; un investimento di quella portata sarebbe incongruente se non vi fosse l’intenzione di ricavarne maggior valore futuro. Bisogna però che il paese risolva il problema della repulsività del paese. Altrimenti il maggior valore verrebbe creato fuori del paese.
    Nel secondo caso, il compratore italiano, a questo punto solo pubblico, dovrebbe sborsare non solo il notevole prezzo, ma dovrebbe mettere sul tavolo le risorse imponenti per far crescere l’impresa. Valore che non conosciamo e che non necessariamente il paese ha nelle sue casse, a meno di tassare nuovamente e pesantemente gli italiani. Il gioco vale la candela? Il caso Alitalia la dice lunga su questo genere di operazioni forzose, e finanziariamente tirate per i capelli.
    Ai miei occhi entrambi gli scenari mi sembrano ugualmente pericolosi oltre che inefficaci.
    Passo quindi ad una proposta di approccio piuttosto provocatoria, ma che intende sfidare la capacità del governo, del Parlamento e dell’apparato burocratico (giustizia inclusa) a mobilitarsi per l’attrattività del paese. A sperimentare soluzioni più coerenti con una agguerrita concorrenza globale.
    1. Il governo crei una “zona di sperimentazione” sull’attrattività del paese. In essa gli operatori che si classificano “italianità”, dallo Stato abbiano finanziamenti (prestiti) adeguati per rendersi attrattivi sulle varie dimensioni delle risorse da rendere disponibili. In altri termini si tratta di finanziare quasi del tutto il cuneo fiscale, riconoscere alla zona franca gli stessi, o migliori, benefici fiscali sull’energia che sono riconosciuti alla regione a statuto speciale, dirottare i sussidi fiscali dalle generiche imprese a questo gruppo, finanziare il pagamento delle tasse con presiti, o meglio, garanzie speciali.
    2. Il cuore della zona di sperimentazione sia un centro di ricerca e sviluppo a livello europeo, eventualmente anche finanziato dall’Europa, in cui si progettino e si prototipino le nuove tecnologie per l’impresa in questione, e altre. Con il coinvolgimento delle università, delle imprese dell’indotto e di altre competenze di qualità.
    3. Nel caso l’impresa e l’indotto non producano valore, occupazione e qualità dei talenti, tutti gli operatori della zona franca che hanno fallito l’obiettivo, restituiscano il finanziamento ed escano dal sistema
    4. Se il funzionamento della zona franca desse invece risultati positivi in termini di occupazione, valore delle imprese, dei talenti, si potrebbe prolungare l’esperimento, anzi estenderlo ad altre aree/rete di impresa di distintivo valore aggiunto.
    La descrizione è sintetizzata in modo da rendere leggibile la logica sottostante che è:
    • l’italianità tradotta in concreto (possibilmente eccellente), in valore delle imprese, in valore delle tecnologie e prodotti, in valore dei talenti
    • l’investitore straniero investe in Italia (attrattività di capitali). Il paese non aumenta la spesa pubblica per pagare il prezzo dell’impresa fuori dell’Italia. (contenimento del debito pubblico). Costo che grava sulla comunità senza dare alcun valore, anzi esponendo quel prezzo alla sua perdita completa di valore. Non partecipazione al rischio di impresa a carico dell’investitore.
    • Il paese investe in Italia nelle distintività effettive dei talenti e delle imprese. Tutti valori che restano per definizione in Italia, qualsiasi sia l’esito dell’impresa.
    • Il Paese investe nella sperimentazione di un modello socio-economico mirato a far crescere l’eccellenza italiana invece di sprecare fondi in aiuti a pioggia incontrollati
    • Le imprese della rete in questione rischiano e investono insieme. Con l’aiuto dei cittadini italiani, che vorranno restituiti loro finanziamenti, o quantomeno saranno bloccati, se il sistema non produrrà abbastanza valore in occupazione, talenti e attrattività.

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