Disuguaglianze di reddito: la tesi di Paul Krugman

di Mario Seminerio 

In un precedente articolo abbiamo tentato di interpretare il fenomeno della crescente disuguaglianza nella distribuzione del reddito come frutto di macrotendenze quali innovazione tecnologica e mutamenti della struttura sociale (immigrazione, diffusione delle famiglie mono-nucleari e mono-parentali). Esiste anche un’ulteriore chiave di lettura, che in realtà dovrebbe più correttamente essere vista come sottoprodotto dell’innovazione tecnologica: il cosiddetto “skill premium”, cioè il maggior ritorno sull’investimento in istruzione e formazione.

Secondo il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke (che lo ha sostenuto mesi addietro, nel corso della sua prima audizione davanti al Congresso da presidente della Fed), sarebbe proprio lo skill premium il principale fattore di aumento della crescente disuguaglianza reddituale osservata negli Stati Uniti e, in misura variabile, anche in altri paesi integrati nella dinamica della globalizzazione. Secondo Paul Krugman, invece, questa interpretazione è errata. Ciò a cui stiamo assistendo, oggi, nella società americana (ma anche, a dire il vero, nelle altre società integrate nel processo di globalizzazione, sia pure con intensità variabile da paese a paese) non sarebbe l’ascesa di un ceto discretamente ampio di “lavoratori della conoscenza”, bensì lo sviluppo di una ristretta oligarchia: reddito e ricchezza stanno diventando sempre più concentrati nelle mani di una piccola e privilegiata élite.

Secondo Krugman la regola dell’80-20 come effetto della globalizzazione, cioè di un gruppo relativamente ampio di vincitori nei cambiamenti indotti dalla globalizzazione (il 20 per cento circa) che distacca il rimanente 80 per cento, è fallace. Dall’Economic Report of the President del 2006 si ricava che i guadagni reali (cioè al netto dell’inflazione) dei laureati sono scesi del 5 per cento nel periodo 2000-2004, mentre sul più lungo periodo 1975-2004 (i cui dati sono tuttavia suscettibili di avere in sé dei break strutturali) i guadagni reali medi crescono ma meno dell’1 per cento annuale. Quindi, secondo Krugman, il vincitore della globalizzazione non sarebbe il primo quintile dei lavoratori, e neppure il primo decile, ma un gruppo ancor più ristretto. Un paper di ricerca di Ian Dew-Becker e Robert Gordon della Northwestern University di Chicago offre alcuni dettagli aggiuntivi. Tra il 1972 ed il 2001 il reddito da salari e stipendi degli americani al novantesimo percentile della distribuzione del reddito è cresciuto solo del 34 per cento, cioè di circa l’1 per cento annuale. Quindi, essere nel primo dieci per cento della distribuzione di reddito, come accade di norma ai laureati, non sembra essere stato il biglietto per grandi incrementi di reddito. Tuttavia, i redditi al novantanovesimo percentile (l’1 per cento più ricco) sono cresciuti del’87 per cento; quelli al percentile 99.9 sono aumentati del 181 per cento. E quelli al percentile 99.99 (cioè lo 0.01 per cento più ricco della popolazione) hanno avuto un aumento del 497 per cento. Rapportato ai redditi, secondo il Tax Policy Center (organizzazione nonpartisan), il novantanovesimo percentile corrisponderà quest’anno ad un reddito di 402.306 dollari; il percentile 99.9 corrisponderà ad un reddito di 1.672.726 dollari. Mentre lo 0.01 per cento più ricco della popolazione (cioè il percentile 99.99) in assenza di dati stimati, si collocherà secondo Krugman oltre i 6 milioni di dollari.

Per Krugman, la tesi sostenuta da Bernanke rappresenta la spiegazione più “confortante” e politicamente corretta della diseguaglianza di reddito, che viene ridotta e ricondotta a semplice fenomeno di domanda ed offerta di lavoro, gestibile attraverso il miglioramento del sistema educativo e formativo, senza mettere pesantemente in discussione il “mito americano” della mobilità sociale. Secondo Krugman, invece, l’idea che negli Stati Uniti si sia formata negli ultimi anni una ristretta oligarchia è molto più inquietante e destabilizzante del tradizionale sistema valoriale del paese, perché suggerisce che la diseguaglianza abbia legami più con le relazioni di potere che con le forze di mercato. La tesi di Krugman ci appare piuttosto esile, frutto più di volontà di polemica politica che di analisi rigorosa soprattutto considerando che, secondo il lavoro di Dew-Becker e Gordon, la crescita retributiva in termini reali non sarebbe significativamente lagging rispetto a quella della produttività, contrariamente alla vulgata comune, che si basa su rilevazioni improprie del costo del lavoro, non inclusive ad esempio di benefit non monetari quali l’assistenza sanitaria, e condotte su dati non correttamente deflazionati.

Secondo Krugman, poi (è questa la tesi politica centrale al suo pensiero), esisterebbe addirittura una causazione tra società diseguali e livelli di corruzione delle medesime. Se qualcuno dei nostri lettori fosse in possesso di papers e studi che illustrano e confermano questa relazione causale, può inviarli al nostro indirizzo: [email protected]

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