La tortura: il dilemma dei prigionieri e degli Stati Uniti

di Mauro Gilli

Alla fine del mese di settembre, il Congresso americano ha approvato una nuova normativa riguardante la detenzione di terroristi stranieri catturati. Essa ha sollevato molte polemiche in quanto, tra le altre cose, accetta implicitamente le misure di coercizione fisica e psicologica (tortura) praticate in prigioni situate all’esterno del territorio statunitense.

Il dibattito sulla tortura è molto intenso e vede divisioni profonde all’interno degli stessi partiti d’oltreoceano. D’altronde, dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, l’amministrazione americana si è trovata di fronte ad un dilemma difficile da risolvere: praticare la tortura sui terroristi catturati per ottenere informazioni utili a difendere i cittadini americani; oppure, sulla base di rispettabilissime posizioni morali, escluderle a priori questi mezzi, e rischiare di non fare “tutto il possibile” per garantire la sicurezza nazionale?

Il settimanale inglese The Economist, all’inizio del 2003, dedicò all’argomento una intera sezione, nella quale si chiedeva se la tortuna non possa mai essere giustificata (11 gennaio). Dopo la scoperta delle prigioni segrete in Europa, lo scorso anno, il New York diede implicitamente una risposta, schierandosi con decisione contro questa pratica in quanto immorale, illegale e soprattutto inefficace se non addirittura controproducente (10 dicembre).

Secondo il Times, la tortura sarebbe controproducente, perchè oltre non fornire informazioni utili, comprometterebbe seriamente l’immagine degli Stati Uniti nel mondo, e in particolare tra i suoi migliori alleati.

Questo ultimo aspetto, sul quale si è soffermato anche J. John Ikenberry, professore di Relazioni Internazionali all’Univeristà di Princeton (Explaining America’s Global Unpopularity), merita particolare attenzione. Ridimensionando la popolarità degli Stati Uniti tra l’opinione pubblica a livello globale, le prigioni di Guantanamo, quelle poi non tanto segrete in molti altri Paesi, e in generale il sospetto che i servizi segreti americani pratichino la tortura sui terroristi arrestati riducono i margini di manovra dei loro alleati, principalmente l’Europa, nella guerra al terrorismo.

Il problema per gli Stati Uniti, ovviamente, non è di poco conto. In termini economici si tratta di un costo-opportunità: il costo rappresentato dal mancato sostegno degli alleati, e l’opportunità di ottenere informazioni importanti nella lotta al terrorismo attraverso la coercizione fisica e psichica dei terroristi.

La scelta dell’amministrazione americana di adottare una legge che permetta l’uso di metodi duri può essere analizzata attraverso questa chiave di lettura. Per gli Stati Uniti, privarsi a priori di uno strumento come la tortura (per quanto odioso esso possa essere) significa anche mettere i prigionieri in una posizione di vantaggio relativo. Si ipotizzi il caso di un detenuto che sia a conoscenza di un futuro attentato: davanti alla certezza dell’ergastolo o addirittura della pena di morte, quale incentivo avrebbe esso a cooperare? ll timore di essere torturato, al contrario, potrebbe rappresentare, forse, l’unico incentivo in grado di fargli svelare informazioni utili a salvare molte vite.

Per quanto riguarda l’immagine degli Stati Uniti nel mondo, si possono fare invece due considerazioni. In primo luogo, il diffuso antiamericanismo che è andato diffondendosi negli ultimi anni – spesso sulla base di ricostruzioni fantasiose della realtà, come le teorie complottistiche sull’11 settembre – dà prova della natura del tutto autonoma del fenomeno. Dimostra, cioè, come esso non sia una “conseguenza” alla condotta statunitense, quanto piuttosto un retaggio ideologico difficile da contrastare. Nei suoi calcoli, quindi, l’amministrazione americana può aver considerato (ragionevolmente) esogena la diminuzione tendenziale della sua popolarità (e quindi del sostegno) tra i suoi alleati nella lotta al terrorismo. In altri termini, il costo-opportunità di cui si è parlato prima, può essere stato inteso come un’opportunità (ottenere informazioni tramite la tortura) alla quale non è associata direttamente un costo.

Inoltre, bisogna ricordare come la minaccia terroristica coinvolga (in modo crescente) anche i Paesi europei. Poichè in materia di difesa questi ultimi dipendono dagli Stati Uniti più di quanto gli Stati Uniti dipendano dai Paesi europei, l’amministrazione americana può aver visto in questa consapevolezza un fattore di bilanciamento rispetto alla sua impopolarità. Se non per fedeltà all’alleanza atlantica – questo è il ragionamento – i Paesi Europei saranno costretti, in una certa misura, a collaborare con gli Stati Uniti per interesse, per difendere, cioè, la propria sicurezza.

In conclusione, per quanto nobili possano essere le argomentazioni contrarie alla tortura, di fronte ad una minaccia come quella terroristica, gli Stati Uniti hanno scelto di non limitare le opzioni a propria disposizione. E in particolare, hanno scelto di mettere al primo posto la sicurezza dei loro cittadini piuttosto che le preoccupazioni dei cittadini di altri Paesi.


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