di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano
Nelle ultime settimane i rendimenti obbligazionari in Eurozona e negli Stati Uniti sono risaliti in misura piuttosto consistente, soprattutto di qua dell’Atlantico. Questo ha determinato alcuni effetti collaterali ampiamente prevedibili ed interrogativi circa la fine del “costo zero” per il denaro. Sia negli Stati Uniti che in Eurozona la crescita non è particolarmente vigorosa, se raffrontata al periodo ante crisi, ma probabilmente si tratta della “nuova normale”, cioè di economie che crescono strutturalmente meno.
Negli Stati Uniti la Federal Reserve sta ancora sfogliando la margherita del prossimo aumento dei tassi d’interesse, dopo aver effettuato il primo ormai quasi un anno fa, a dicembre 2015. All’epoca, la previsione era per un 2016 con aumenti dei tassi ufficiali di un punto percentuale: forse avremo un quarto di quell’entità, e solo il mese prossimo. La crescita potenziale pare essersi abbassata in modo consistente, e non si rilevano pressioni inflazionistiche pur in presenza di un tasso di disoccupazione (il 5%) che gli economisti ritengono di pieno impiego.
In Eurozona, dove la Bce sta ricorrendo ai tassi negativi, il rialzo dei rendimenti appare causato soprattutto dalla lieve ripresa dell’inflazione, a sua volta indotta dal recupero dei prezzi del greggio, la cui variazione sui dodici mesi sta tornando positiva. Si deve tuttavia distinguere tra inflazione complessiva e quella cosiddetta core, che da noi Istat definisce “di fondo”, che è quella al netto delle componenti volatili di energia e prodotti alimentari. In Eurozona l’inflazione core non si è mai realmente mossa, restando allo 0,8% tendenziale. La risalita dei rendimenti di mercato, che sulle scadenze più lunghe ha inferto colpi non lievi ai portafogli, appare per ora la normale reazione alle “vertigini” di aver avuto gran parte della curva dei rendimenti sotto lo zero.
Anche per questo motivo al momento appaiono piuttosto prematuri i rallegramenti per lo “scampato pericolo” deflazionistico, come anche dichiarare la missione compiuta della Bce nel riuscire a rialzare il livello dei prezzi. Oggi c’è decisamente maggior discernimento rispetto ai tempi della presidenza Trichet, nel 2011, quando i tassi vennero alzati a fronte di uno shock negativo indotto dalla risalita dei prezzi del greggio a 120 dollari, mossa che gli annali ricorderanno come una delle più insensate nella giovane storia dell’istituto di Francoforte.
Ma l’unico tasso che conta, per chi non soffre di illusione monetaria (cioè non guarda alle sole grandezze nominali) resta quello reale, cioè al netto dell’inflazione: da quello si desume se l’economia sta tornando tonica, o almeno sta riacquistando vigore. Ed al momento è presto per dirlo. L’Italia, in questo quadro, resta in affanno, visto che l’ultima rilevazione sui prezzi al consumo ha mostrato un’inflazione di fondo in ulteriore rallentamento, allo 0,2% tendenziale. Per noi la strada verso la ripresa appare ancora più ripida.
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