di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano
La Banca centrale europea ha deciso di non fornire indicazioni su un eventuale allungamento o potenziamento delle operazioni di easing quantitativo, il cui termine è previsto per marzo. Mario Draghi ha detto che il tema non è stato trattato, anche considerando le previsioni aggiornate di crescita, che restano sostanzialmente stabili al 2017, pur se quelle di inflazione per il prossimo anno sono state limate da 1,3 a 1,2%. In molti pensano che queste motivazioni siano una trasparente foglia di fico. Le stime di inflazione per l’Eurozona per il prossimo anno sono già piuttosto elevate rispetto ai valori correnti, ed il loro progressivo ridimensionamento non promette nulla di buono. Vi sono poi problemi di scarsità di titoli di Stato tedeschi acquistabili.
Con necessità di prolungamento del programma, si è ipotizzato di rimuovere gli attuali limiti del 33% per singola emissione e del 30% per singolo Paese emittente, oppure di ignorare la regola che prevede di acquistare titoli di stato in rigorosa proporzione al peso di ogni paese sul capitale della Bce (capital key). Da una simile modifica la maggiore beneficiata sarebbe ovviamente l’Italia. Questa ipotesi sembra quindi improbabile: scatenerebbe ricorsi tedeschi per finanziamento monetario di deficit, sia pure indiretto. Anche la rimozione del vincolo di non acquistare titoli di Stato il cui rendimento sia inferiore (cioè più negativo) al tasso ufficiale sui depositi, attualmente -0,4%, ricadrebbe in questa fattispecie.
La sensazione è che, in persistenza di pressioni deflazionistiche, o comunque di un tasso di inflazione sensibilmente inferiore all’obiettivo del 2 %, la Bce stia finendo le munizioni. Draghi ha reiterato l’invito alle solite “riforme strutturali”, oltre a quello ai paesi con capacità di deficit, Germania in testa. Ma la Germania sta già spendendo molto per la gestione dei migranti, mentre i suoi consumi domestici restano brillanti e contribuiscono alle importazioni, soprattutto dall’Eurozona. Se anche Berlino facesse due punti pieni di deficit, l’effetto trainante sulla crescita europea sarebbe difficilmente risolutivo.
In questo contesto di fragilità l’Italia resta l’anello debole della catena europea, per pressione del debito pubblico. Il ricorso ad una politica fiscale prociclica (nel 2016 il nostro deficit-Pil strutturale, cioè corretto per il ciclo economico, è aumentato dello 0,7%) non ha prodotto risultati, anche perché il maggior deficit è stato disperso in mille rivoli a basso impatto sulla crescita, confermando una”tradizione” italiana che è poi quella che ci ha condotti sin qui: una spesa utile a puntellare (forse) la crescita nel breve termine, ma che si risolve nel medio-lungo termine in più debito, anche a causa del suo impulso espansivo del tutto effimero.
Occhi sulla Bce, quindi: la fine del QE potrebbe segnare la resa dei conti finale per il nostro Paese.
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