di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano
Il prossimo 23 giugno i cittadini del Regno Unito voteranno per decidere se restare nell’Unione europea. I sondaggi indicano alta incertezza, per quello che sarà un momento dirimente per il paese ma anche per la stessa Unione. Obiettivo del premier David Cameron è quello di recuperare sovranità ed autonomia dalla Ue, soprattutto sulla restrizione dei benefici di welfare per gli immigrati, anche comunitari, ed i loro figli rimasti nel paese di provenienza, ed il riconoscimento che il Regno Unito, ed in particolare il suo settore di servizi finanziari, non subirà le conseguenze negative di aver scelto di non aderire al progetto di “Unione sempre più stretta”.
I sostenitori della Brexit ritengono che tali obiettivi restano largamente indeterminati, che saranno agevolmente neutralizzati dalla Ue e che quindi solo l’uscita potrà determinare il raggiungimento della piena sovranità. In caso di uscita, i rapporti economici con la Ue potrebbero essere regolati percorrendo una delle tre opzioni disponibili. L’ingresso del Regno Unito nell’Area Economica Europea, al pari con Norvegia, Islanda e Liechtenstein, significherebbe accettare tutte le norme sul Mercato Unico, incluso il libero movimento delle persone, oltre a contribuire ai bilanci comunitari e recepirne le norme, incluse quelle di tutela sociale, ma senza possibilità di incidere sulla loro formazione. Significherebbe anche essere fuori dall’unione doganale, con conseguenti aggravi amministrativi.
Altra opzione è quella degli accordi bilaterali negoziati, utilizzata da decenni per regolare i rapporti tra Svizzera e Ue. Anche qui si porrebbero problemi di lentezza dei negoziati ed onerosità degli accordi derivanti (ad esempio per accedere al Mercato Unico) oltre alle limitazioni di sovranità che li caratterizzano. Da ultimo, sarebbe possibile regolare i rapporti con la Ue nel quadro delle regole di base dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, che tuttavia di fatto non coprirebbero l’area di maggior interesse per Londra, i servizi finanziari.
È vero che l’ampio deficit del Regno Unito nello scambio merci col resto della Ue spingerebbe quest’ultima a non “punire” i britannici, volendo conservare il proprio export, ma l’intero processo sarebbe molto lungo ed esposto a conflitti di varia origine, non ultimo il desiderio di Germania e Francia di non consentire destabilizzanti spinte centrifughe nella Ue. Al netto delle previsioni economiche e dell’altissima incertezza che caratterizzerebbe una Ue post-Brexit (con conseguente frenata degli investimenti, interni ed esteri), non si deve sottovalutare la pulsione alla rottura prodotta in elettorati spaventati e stressati dagli effetti di immigrazione e più in generale della globalizzazione.
Ogni processo di “decostruzione” implica costi elevatissimi e risvegli spesso ruvidi. In un mondo fortemente interconnesso, il concetto di sovranità rischia di rivelarsi illusorio o più propriamente uno specchietto elettorale per allodole.
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