Uscire dall’euro? Attenti a quello che desiderate, potrebbe avverarsi

di Mario Seminerio – Strade Online

Con l’approssimarsi dell’immancabile appuntamento col destino, questa volta nella forma di elezioni europee, il teatrino della politica italiana ha trovato (o meglio, ritrovato) un tema che è semplicemente perfetto a fini di marketing elettorale, per la possibilità di costruire carriere politiche o come magico elisir per prolungarne altre che apparivano (in realtà, sono) irrimediabilmente trapassate. Il tema è la leggendaria uscita dall’euro come evento salvifico per la periclitante nazione italiana, dipinta come terra di conquista da parte di lanzichenecchi spietati, che per anni (anzi, millenni, come vedremo) hanno studiato a tavolino questo diabolico piano e che ora si accingono a sferrare l’attacco finale alla Patria prostrata dal lungo inverno della guerra di logoramento.

Inutile, in questa sede, ribadire le problematiche operative estreme che l’uscita dalla moneta unica richiederebbe ed indurrebbe: il blocco dei prelievi bancari fino ad avvenuta sostituzione della valuta, che richiederebbe un’azione notturna e senza preavviso, ad evitare corse agli sportelli da parte dei cittadini, molti dei quali favorevoli all’uscita dall’euro ma solo un minuto dopo aver portato a casa i propri risparmi, lasciandoli rigorosamente denominati nell’odiata valuta; l’introduzione di controlli a tempo indeterminato sui movimenti di capitali, con conseguente isolamento del paese dai mercati finanziari; l’esplosione di un devastante contenzioso internazionale ad oltranza tra creditori e debitori. Sono tutte cose già tratteggiate nella letteratura economica e politica degli ultimi anni, e comunque la rivoluzione non è un pranzo di gala.

Il nostro paese è giunto a questa crisi esistenziale da predestinato. Un destino fatto di incuria politica, di assenza di riforme di struttura negli anni in cui era possibile (ed obbligatorio) farle, del convincimento (comune a moltissimi, dentro e fuori l’Italia) che l’unione monetaria potesse determinare la morte del rischio di credito e l’avvento di un nirvana finanziario in cui un titolo di stato greco (o italiano) valesse per definizione come uno tedesco (è persino accaduto).

Per un paese come il nostro, che ha fatto un marchio di fabbrica della cultura emergenziale, della incapacità antropologica a programmare e riformare se non sotto il tallone di un qualche feroce vincolo esterno, di un discorso pubblico infantile e dominato da forme di pensiero magico, l’ingresso nell’euro era un disastro che attendeva di accadere, e così è avvenuto. Per queste stesse motivazioni, anche l’uscita dalla moneta unica è rapidamente divenuto tema da Arcadia, sul quale innestare una narrativa onirica fatta di bei tempi andati che mai sono esistiti nelle forme narrate. A ben vedere, questa è soprattutto una battaglia di controfattuali, del “come si stava bene, quando ci dicevano che si stava male”. L’aggressività con cui esponenti del fronte no-euro attaccano i cosiddetti “sostenitori” dell’euro (i quali spesso finiscono col balbettare frasi fatte e luoghi comuni su un valore altrettanto salvifico dell’euro che oggi nessuno riesce più a percepire) è paradigmatica: guardate come crescevamo, all’epoca, guardate come pagavamo stipendi e pensioni, con la loro bella scala mobile. Veniamo da lì, possiamo tornarci.

Ricordate? Erano i tempi del “punto unico di contingenza”, del salario variabile indipendente, delle pensioni che non si negavano a nessun quarantenne dipendente pubblico né a nessun cieco che guidava l’auto. Erano anni ruggenti, il miracolo economico era terminato da lustri ma per qualcuno era ancora in corso, c’erano le magiche televisioni in bianco e nero. Un po’ più indietro, in quell’Età dell’Oro, c’erano persino le case chiuse, come ricordano con nostalgia i più anziani, “mica come ora che ci sono le negre che bruciano i copertoni sotto casa mia e non pagano le tasse. Sa quanto potremmo farci, con tutti quei soldi?”. Del tutto futile scoprire che queste narrative sono un miscuglio psichedelico di momenti del tutto differenti e non legati tra essi.

Ma ancora più pericoloso e cognitivamente dissonante è scoprire che i nostri “problemi” sono cominciati molto prima dell’euro, con il “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia, oltre trent’anni addietro, quando (anche per impegni/vincoli internazionali) il nostro paese ha deciso che la banca centrale non dovesse più stampare moneta per comprarsi (in via residuale ma non troppo) la montagna di titoli di stato che un deficit pubblico in doppia cifra riversava sul mercato. La vasta cospirazione internazionale volta a mettere sotto tutela un paese orgoglioso e dinamico come il nostro era quindi in atto da molto prima dell’avvento della moneta unica. Secondo alcuni, quelli più vocati a congiungere i puntini, tale cospirazione data almeno dall’Unità d’Italia, fors’anche da prima. Forse lo stesso sfaldamento dell’Impero Romano rientra nel complotto ordito contro di noi dai barbari invasori germanici. Da sempre tentano di imbrigliarci perché troppo brillanti, in un mondo di mediocri.

“Se potessi avere mille lire al mese”, s’intitolava una celeberrima canzone dei tempi andati il cui testo era purtroppo stato scritto senza prevedere la possibilità di indicizzazioni salariali. Ora forse torna la Speranza: stampiamo il nostro destino. Del resto lo abbiamo visto fare ad americani, inglesi, giapponesi, no? Si, ma loro non stampavano per coprire il deficit. E che cambia? Finalmente potremo pagare le pensioni, la sanità, la scuola, un arcobaleno tutto per noi. Siamo latini, finiremmo argentini o venezuelani, non yankee. Gli indizi ci sono già tutti, basta leggere i giornali, soprattutto di destra, la nostra destra-cascame e liberiota, fatta di borborigmi più che di argomenti. Che poi, a dirla tutta, se “argomenti” sono quelli della nostra sinistra banchiera e bancarottiera, non sapremmo se spararci o gettarci sotto la metro. Ma è comprensibile, del resto: Pinocchio era italiano, sino al midollo, e gli zecchini interrati nell’Orto dei Miracoli in attesa della loro moltiplicazione erano il precursore di una banca centrale che stampa felicità.

Poi, da una eventuale uscita dalla moneta unica ci sarebbero quelle che gli anglosassoni chiamano unintended consequences. Ad esempio, per restare nell’arido mondo dei contenziosi legali, quelle di società a maggioranza pubblica (ad esempio ce n’è una che comincia con E e finisce con L) che si sono pesantemente indebitate a termini di legislazione non domestica, emettendo eurobond, e che non potrebbero in alcun caso riconvertire il debito in moneta nazionale. Come fare, per evitare il loro dissesto e default? Che domanda, nazionalizziamole integralmente. Con quali soldi? Ma come, stampandoli, no? E per le imprese private quotate che si trovassero nelle stesse condizioni? Anche qui, si nazionalizzano: non vorrete mica essere così micragnosi, ora che andiamo verso la ritrovata sovranità e possiamo pure ridare allo stato la sua sacra primazia contro gli odiati capitalisti privati, no?

Si, ma l’Italia è un paese di pensionati, cioè soggetti a reddito maledettamente fisso che temono l’inflazione. Uscendo dalla moneta unica bisogna mettere in conto una qualche risalita dei prezzi. Certo, non le ridicole devastazioni preconizzate dai pro-euro, ma anche un 5, 8, 10 per cento di inflazione annua azzannerebbe le pensioni. Ma che problema c’è? Scala mobile e stampante, paese trionfante!

E comunque i soldi arriveranno, perché con una nostra moneta esporteremo a cannone e a tavoletta. Si, ma se i nostri partner commerciali, evidentemente rosi dalla gelosia per i nostri trionfi commerciali e produttivi, decidessero di punirci per le nostre svalutazioni competitive, infliggendo dei dazi al Made in Italy? E allora noi faremo lo stesso, “compra italiano” la trionferà! Non solo: inizieremo un grandioso programma di reindustrializzazione domestica, finanziato con la nostra stampante magica. Un impegno concreto, più chilometro zero per tutti, ovunque!

E sia chiaro che questa sarebbe una operazione patriottica. Per questo motivo, chiunque pensi che dal ritorno ad una valuta nazionale deprezzata possa derivare shopping di aziende italiane da parte dei barbari d’oltreconfine, se la faccia passare: nessuno straniero potrà acquisire imprese italiane, perché gli investimenti esteri sono schiavitù in potenza. Se i nostri imprenditori avranno bisogno di cedere la propria attività, lo stato e la sua stampante magica subentreranno. Non dovrà più accadere come dopo il crollo della lira del 1992, quando la Deutsche Bank si comprò per un pugno di marchi due banche italiane cambiandone le insegne in quelle teutoniche.

Ci saranno pure effetti collaterali delle svalutazioni da ritorno a moneta nazionale ma ci hanno insegnato che la sovranità è amore: vince sempre, su odio e invidia. Questa sarà solo la prima fase, naturalmente: dopo il ritorno della moneta nazionale sarà chiaro che questa è una rivoluzione permanente, e che dopo tutto l’Italia è pur sempre una ridicola espressione geografica. Si procederà pertanto a dismettere la neo moneta italiana, introducendo valute di macro-regione, aggregazioni comunali, quartiere e, in prospettiva, supercondominio. Federalismo o muerte.

Attenti a quello che desiderate. Potrebbe avverarsi.


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