di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano
Da alcuni giorni i paesi emergenti sono oggetto di forti vendite sui mercati di cambi, azioni ed obbligazioni. L’India ha visto una drammatica accelerazione del deprezzamento della rupia, un rialzo dei rendimenti obbligazionari e forti ribassi dei corsi azionari. Considerazioni analoghe valgono anche per Indonesia, Thailandia e, fuori dall’Asia, per Brasile, Sudafrica e Turchia.
Questi paesi sono stati tutti beneficiati dalle politiche monetarie eccezionalmente accomodanti perseguite dalle banche centrali dei paesi sviluppati, soprattutto dalla Fed, che hanno scatenato la caccia al rendimento su scala planetaria, portando ad imponenti afflussi di capitali finanziari nei paesi emergenti, causa ed effetto di un altro boom parallelo, quello delle materie prime. Queste condizioni hanno rimosso l’urgenza di riforme strutturali volte ad accrescere la produttività e liberalizzare i mercati domestici, per accogliere non solo e non tanto capitale finanziario, che per definizione è molto volatile, quanto quello imprenditoriale, cioè investimenti diretti esteri.
La messe di risorse fiscali e finanziarie ha invece spinto i governi a mantenere e spesso ampliare costosi ed inefficienti sussidi pubblici su beni di prima necessità, come alimentari, combustibili e carburanti. Tali politiche fiscali espansive si sono sommate al credito facile, causando ampi deficit delle partite correnti. Ora il timore che gli Stati Uniti stiano per passare a politiche monetarie restrittive causa forti deflussi di capitali dagli emergenti, che perdono riserve valutarie e rischiano quindi una crisi di bilancia dei pagamenti, che tentano di scongiurare con una stretta monetaria e fiscale (riducendo sussidi e causando fiammate inflazionistiche a massimo danno dei più poveri) che avvita la spirale recessiva, oltre che con controlli sui capitali che in realtà ne accelerano i deflussi.
Ancora una volta l’oceano di liquidità globale, con le sue fasi di marea, irretisce ed inganna la politica locale.
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