Poche parole di buon senso sulla Siria

di Andrea Gilli

Quando Marx diceva che la storia si ripete sempre due volte, prima in tragedia e poi in farsa – forse senza neppure comprendere bene il meccanismo causale sottostante – in fondo in fondo aveva ragione, almeno in alcuni casi.

Pensiamo: 2003. L’Occidente si mobilita per le armi di distruzione di massa di Saddam – uno dei pochi regimi laici della regione. Manda gli ispettori. Non è chiaro se le armi ci siano o meno. Si procede con la guerra. I morti da armi chimiche, però, c’erano già stati e i dieci anni di disastro iracheno ci ricordano la tragedia che scaturì da quella decisione. Uno su tutti merita attenzione: ora l’Iraq è sempre più dominato da fazioni religiose radicali. Per fortuna uno degli obiettivi della guerra al terrorismo era combattere il fondamentalismo islamico.

2013: L’anniversario della guerra in Iraq è appena passato. L’Occidente si mobilita per le armi chimiche di Assad. Uno degli altri (pochi) regimi laici della regione. Anche in questo caso ci sono gli ispettori ONU. Dell’uso delle armi chimiche – anche in questo caso – non ci è dato sapere. I morti, comunque, ci sono già stati: siamo a 100.000, decina di migliaia più decina di migliaia meno, senza fare troppo i pignoli. Ma ora, ci dicono gli esperti, non si può più aspettare. Prendendo a prestito dal famoso detto sui buoi e il cancello, si potrebbe dire che qui si vuole fermare il macellaio quando la bistecca al sangue è appena stata servita al tavolo.

Per chi ha non tanta memoria storica, ma giusto quegli anni di vita per ricordare il 2003, quando sta succedendo lascia un certo sgomento. Restano quindi solo alcune considerazioni sparse.

In primo luogo, non bisogna aver studiato Clausewitz per capire che la forza militare è uno strumento. E ogni strumento ha una sua ragion d’essere se serve un determinato scopo. Un attacco alla Siria può avere solo tre obiettivi:

1) costringere Assad a non usare più le armi chimiche;
2) costringere Assad ad un armistizio con i ribelli;
3) costringere Assad ad abbandonare il potere.

Sappiamo che non ci sarà un attacco di terra: quindi si opterà per un bombardamento dei centri nevralgici del Paese. A meno di non voler fare un deserto e chiamarlo pace, ciò automaticamente esclude l’opzione 3. Con i Tomahawks possiamo degradare significativamente le difese anti-aree, i centri di comando e controllo e i principali asset strategici del paese (aeroporti, centrali elettriche, comunicazioni, etc.), ma non possiamo vincere una guerra a bassa intensità.

Ciò lascia aperte le opzioni 1 e 2. Partiamo dalla seconda opzione: certo, se indeboliamo enormemente Assad, questo potrebbe essere costretto a trovare un accordo con i ribelli. A meno che questi non inizino a prenderci gusto. Cosa vuole dire? Perché smettere quando si vede a vista la “soluzione finale”: molti dei ribelli non vogliono un armistizio, vogliono eliminare Assad, il suo clan e soprattutto la sua setta religiosa. In sostanza, il rischio reale è di favorire ulteriore violenza, con il fine ultimo di portare al governo esattamente quei ceffi che la guerra al terrorismo voleva combattere. Se l’esito pare inverosimile, ricordiamoci quanto è successo in Libia dove ex-militanti di al-Qaeda sono finiti al potere.

Quindi, fondamentalmente, con un’operazione missilistica sulla Siria possiamo solo costringere a non usare ulteriormente il proprio arsenale chimico. That’s interesting, direbbero gli americani. La guerra civile siriana, finora, ha fatto circa 100.000 vittime. Le armi chimiche, se provate, sarebbero responsabili per un migliaio di vite. Francamente, e con tutto il rispetto, non si vede il senso strategico di questa opzione. Ma c’è un altro elemento. Ammettiamo che Assad abbia effettivamente usato il proprio arsenale chimico. L’unica spiegazione razionale è che la sua linea di rifornimenti si stia esaurendo. Degradando ulteriormente le sue capacità militari – questa è logica – aumenteremmo però il suo incentivo al ricorso alle armi chimiche.

Certo: si può intervenire via terra. Iraq e Afghanistan sono infatti casi lampanti di successo da seguire… hmmm

Restano poi ovviamente una serie di considerazioni assolutamente identiche a quelle degli altri conflitti. Basta averli studiati. Quando ci fermiamo? Kosovo, Afghanistan, Iraq, Libia: dovevano essere tutti conflitti brevi, da pochi giorni a poche settimane. Ricordate? Qui ci dicono che il bombardamento durerà pochi giorni. Vediamo. Soprattutto: se dopo la prima raffica di missili, nulla cambia, cosa succede?

Seconda considerazione: cosa succede alle armi chimiche? Già. Distruggiamo i laboratori con i nostri Tomahawks: ciò eviterebbe che queste finiscano in mano a tizi poco raccomandabili. L’unico problema “collaterale” è che contamineremmo le aree circostanti, con il rischio di mietere più vittime di quante causate da Assad. Fantastico. Oppure non attacchiamo questi centri: e allora ci conviene sperare che Assad non cada, perchè altrimenti chissà dove finiscono quegli arsenali.

Ultima nota: la guerra non è ancora iniziata, ma l’onestà intellettuale è il primo caduto. Quegli stessi che dieci anni fa si confrontavano animatamente dandosi, rispettivamente, dei criminali e degli “appeaser”, perché non avevano avuto il mandato dell’ONU o perché non vedevano l’incombente minaccia irachena, oggi sono seduti allo stesso tavolo a spiegarci la necessità morale e strategica di intervenire in Siria.

Che fare, dunque? Guardiamo Israele. L’unica vera e costante minaccia militare che Israele ha affrontato negli ultimi anni è venuta direttamente o indirettamente (Hezbollah) dalla Siria. Se dunque c’è un Paese che dovrebbe volere la rimozione di Assad, questo è quello attualmente guidato da Netanyahu. Infatti Israele, fin dall’inizio della Primavera Araba si è ben visto dal chiedere movimenti bruschi e sulla Siria si è sempre espresso con estrema cautela.

Molti dicono che non possiamo stare a guardare. Israele sembra invece suggerire l’opposto. A torto o a ragione, il piccolo stato ebraico è spesso accusato di militarismo: la sua cautela probabilmente in questo caso va ascoltata. E condivisa.


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