Le politiche di Rajoy destinate all’avvitamento

di Mario Seminerio – Il Tempo

La manovra finanziaria per il 2013, annunciata giovedì dal governo Rajoy, rappresenta l’ennesimo tentativo di chiudere buchi di bilancio che l’implosione dell’economia spagnola e le prescrizioni ad essa imposte dall’Unione europea e dalla Germania hanno finora scavato senza requie. Un dato rappresenta la misura della fatica di Sisifo del governo e soprattutto dei cittadini spagnoli: nel 2013 è previsto un taglio delle spese dei ministeri dell’8,9 per cento, pari a oltre 3,8 miliardi di euro, per concorrere a portare il rapporto deficit-Pil ad un ancora pesante 3,8 per cento a fine 2013. Questi sforzi di contenimento di spesa, peraltro già frustrati in passato, verranno travolti dall’aumento della spesa per interessi, prevista in crescita di un terzo, cioè di 9,7 miliardi di euro, a causa delle forti tensioni sul costo del debito sovrano spagnolo. E, per colmare la differenza, tante nuove tasse, l’Iva su tutte.

E’ la maledizione della crisi, ma anche il segno della umana stupidità: tagliare per colmare buchi di bilancio, ed aggravare in tal modo la recessione, al solo fine di imporre altri tagli. Tutto ciò mentre la Catalogna ha ormai lanciato la propria sfida separatista con le elezioni anticipate del 25 novembre, in quello che potrebbe essere l’atto finale non solo dello sghembo sistema di autonomie locali spagnole, ma anche dello stato unitario. Oggi più che mai il paese appare un tragico fondale di cartapesta, dietro il quale si intravvede una deriva greca fatta di impoverimento e rivolta sociale.

Sulla Spagna, negli ultimi giorni, sono poi tornate ad addensarsi nubi di tempesta, dopo che il blocco dei paesi del Nord dell’Eurozona a massimo rating (Germania, Finlandia, Olanda), ha posto un vero e proprio veto all’utilizzo delle risorse del fondo salva stati ESM per ricapitalizzare le banche spagnole. Impegno che rappresentava l’architrave degli accordi del Consiglio europeo di fine giugno, nella lunga ed accidentata strada per giungere all’unione bancaria europea e da lì spiccare il volo verso l’unione federale e fiscale. Di fronte a questo voltafaccia, che conferma per l’ennesima volta che le “intese” in sede di vertici europei sono soprattutto parole più o meno in libertà, la Spagna rischia di vedersi infliggere un ulteriore aumento del rapporto debito-Pil di una decina di punti percentuali.

Questi continui stop and go, fatti di sconfessioni di accordi precedenti presi in sede “solenne” a cui fanno seguito fasi di panico sul mercato che conducono a dichiarazioni concilianti e sedative o, nei casi estremi, a dirompenti iniziative di salvataggio da parte di Mario Draghi, sono ormai la costante di questa Europa, che percorre il sentiero verso l’unione politica e fiscale come un ubriaco che costeggia un fiume in piena, rischiando ogni volta di cadervi dentro ed affogare, trascinato dalla corrente.

Peraltro, l’iniziativa del “club delle triple A” nord-europee sarà anche popolare presso i rispettivi elettorati, ormai sempre più irritati e ghermiti dalla sensazione di essere in trappola come ufficiali pagatori dei dissipati meridionali d’Europa, ma dimentica che le banche spagnole, prima di avere quei soldi sotto forma di capitale, passeranno attraverso enormi svalutazioni di crediti, a livello di obbligazioni subordinate, dopo aver spazzato via i precedenti azionisti. Nessun regalo alla leggerezza con cui i banchieri hanno concesso prestiti nel passato, dunque. Attendiamo lo sviluppo di questo ennesimo incidente di percorso, che alla fine potrebbe anche servire ad Angela Merkel per blindare il proprio profilo interno di oculata centrista, ma che sottopone all’ennesimo stress paesi già resi enormemente fragili dalla crisi, e che stanno immolando sull’altare della spesa per maggiori interessi le proprie entrate fiscali e la propria spesa sociale.

E se non bastasse l’Europa, in cui si stanno producendo effetti simili a quelli delle guerre che l’Unione doveva scacciare definitivamente dal teatro del nostro continente, i problemi arrivano anche dall’economia mondiale, il cui rallentamento è ormai prossimo all’arresto. La Cina sta maneggiando una bolla immobiliare che sta per esplodere, mentre la manifattura del paese subisce colpi sempre più forti: come la rivolta del “popolo della Foxconn”, i quasi-schiavi che assemblano i nostri gadget elettronici e che vogliono anch’essi sedersi davanti ad uno schermo e discutere della loro esistenza e delle sorti del mondo, proprio come facciamo noi declinanti occidentali.

Ma la manifattura cinese è sotto pressione anche per il progressivo inaridimento dei propri mercati di sbocco, Stati Uniti e (soprattutto), Europa. Viviamo ormai nel mondo in cui i deficit commerciali si sanano non più con l’aumento delle esportazioni ma col crollo delle importazioni causa austerità ed impoverimento della popolazione, come ben sappiamo noi italiani, assieme agli altri Pigs. Una combinazione nociva per il mercantilismo cinese e, in prospettiva, anche per quello tedesco.


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