di Mario Seminerio – Libertiamo
Il declassamento che l’agenzia di rating Standard&Poor’s ha inflitto a metà dell’Eurozona non è un fulmine a ciel sereno, contrariamente a quanto affermano i sostenitori della teoria del complotto. E neppure è un giudizio divino. Peraltro, esiste pure la possibilità che i mercati se ne disinteressino, visto che le agenzie di rating ormai da tempo appaiono “dietro la curva”, cioè giungono a certificare quello che i mercati e gli investitori già sanno da tempo. Ma è comunque utile analizzare le motivazioni della decisione, per comprendere quale è il messaggio che S&P vuol far passare.
Il declassamento, si diceva, non è un fulmine a ciel sereno. I diciassette paesi dell’Eurozona sono stati posti in negative watch a dicembre, non casualmente dopo l’ultimo, “risolutivo” eurovertice, quello che ha posto le basi per quella che i tedeschi chiamano “unione fiscale”, ma che di “unione” non ha praticamente nulla, visto che è priva di componente mutualistica o solidaristica. Tecnicamente, i negative watch si “risolvono” entro novanta giorni, con un downgrade (cosa molto probabile) o con la conferma del rating. Quindi, S&P si era data fino a marzo per prendere una decisione. Per come l’Eurozona sta procedendo, cioè sulla strada di strette fiscali viste come un valore in sé e per sé, in un contesto recessivo che di esse è causa ed effetto, c’era poco dubbio che il declassamento sarebbe arrivato. Se, anziché a marzo, arriva a metà gennaio, la sostanza non cambia. Inutile quindi urlare al “downgrade ad orologeria”.
Ma cosa non piace, quindi, a S&P, di questa Eurozona e della sua terribile governance? Presto detto: l’assenza di mutualità e solidarietà. Leggere le motivazioni per credere:
«E’ nostra opinione che le limitazioni alla flessibilità monetaria imposte dall’appartenenza all’Eurozona non siano adeguatamente controbilanciate da altre politiche economiche per evitare l’impatto negativo sul merito di credito che i membri dell’Eurozona stanno al momento a nostro avviso affrontando. La solidarietà finanziaria tra stati membri ci appare insufficiente per impedire prolungate incertezze di funding»
Che tradotto vuol dire che manca uno “scudo” monetario (eurobond o bazooka della Bce) tale da sostituirsi ai mercati, entrati in sciopero. L’agenzia di rating scrive espressamente che pensava ad una sorta di do ut des, austerità fiscale contro espansione monetaria o mutualità ma questo non è accaduto, e quindi il profilo di rischio dei paesi vulnerabili si è ulteriormente accentuato, come è spiegato di seguito:
«Specificamente, riteniamo che gli attuali strumenti di gestione della crisi possano non essere adeguati a ripristinare una durevole fiducia nel merito di credito di grandi membri dell’Eurozona, come Italia e Spagna. Né pensiamo che essi [gli strumenti attuali] siano in grado di instillare sufficiente fiducia nella capacità di questi sovrani a risolvere i potenziali stress finanziari nelle loro giurisdizioni»
Contrariamente a quello che una lettura politicante domestica tende a suggerire, questo paragrafo non esprime quindi una critica al governo italiano (né a quello spagnolo) ma all’intera costruzione dell’Eurozona, che ha fatto evaporare la fiducia dei mercati con le sue giravolte ed i suoi obiettivi eccentrici rispetto al cuore del problema. Piccolo inciso ed altrettanto trascurabile domanda che da tempo rivolgiamo a politici e prestigiosi commentatori della scuola “correlazione è causalità”: vi siete accorti che la Spagna ha subito il nostro stesso destino pur avendo fatto elezioni ed una manovra frettolosamente indicata come di “soli tagli”, ma che in realtà per il 40 per cento è fatta di inasprimenti alle imposte dirette?
Passiamo oltre. Nelle motivazioni, S&P evidenzia che altro problema dell’Eurozona è aver identificato la radice di tutti i mali nello squilibrio fiscale, mentre c’è dell’altro, e l’accordo di dicembre ha omesso di riconoscerlo:
«Riteniamo anche che quell’accordo sia basato solo su un riconoscimento parziale della fonte della crisi: che l’attuale turbolenza finanziaria derivi principalmente dalla dissipatezza fiscale alla periferia dell’Eurozona. Nella nostra opinione, tuttavia, i problemi finanziari dell’Eurozona sono nella stessa misura una conseguenza dei crescenti squilibri esterni e delle divergenze di competitività tra il centro dell’Unione monetaria europea e la cosiddetta “periferia”. Riteniamo, quindi, che un processo di riforma basato su un pilastro di sola austerità fiscale rischi di diventare autolesionistico, perché la domanda domestica cala in linea con i crescenti timori dei consumatori riguardo la sicurezza dell’occupazione ed i redditi disponibili, erodendo il gettito fiscale nazionale»
Ripetiamolo ancora: prima della crisi, Spagna ed Irlanda avevano conti pubblici in condizioni perfette, nettamente migliori di quelle tedesche. Ma avevano sviluppato una bolla immobiliare ed un boom creditizio, agevolati dall’imponente afflusso di capitali provenienti anche dal riciclo del surplus commerciale della Germania. Se all’epoca fosse stato in vigore un fiscal compact, si sarebbe fatto bastare i conti pubblici spagnoli ed irlandesi in ordine o sarebbe intervenuto sull’indebitamento del settore privato e, ancora più a monte, sul fatto che c’erano paesi in permanente deficit commerciale ed altri in altrettanto permanente surplus, e quindi c’era un problema di competitività sottostante? E in quest’ultimo caso, la fantomatica “Unione” fiscale europea sarebbe intervenuta fino al punto da imporre azioni sulla competitività, e magari ordinando alla Germania di stimolare la propria domanda interna, per contribuire a riassorbire gli squilibri? Le agenzie di rating potranno non piacerci, ma non sono esattamente popolate di sprovveduti.
In sintesi, questo è un pesantissimo voto di sfiducia alla costruzione europea ed alla sua governance, presente e futura, a meno di correzioni. E la costruzione europea, oggi, si determina con un paese egemone che detta le regole del gioco ed altri che lo seguono, più o meno passivamente. Il “verdetto” di S&P è il riconoscimento che l’Eurozona o è un sistema o semplicemente non è. Considerarla la sommatoria di diciassette piccole e grandi Germanie è un errore capitale. Se questo è un complotto, lo è per impedire catastrofi e segnalare, che con questa rotta, il Titanic europeo sta andando ansiosamente a caccia del suo iceberg. S&P lo definisce rischio da “inconcludente strategia di gestione della crisi europea”, non prima di aver elogiato quanto finora fatto dai governi Monti e Rajoy. I quali, tuttavia, da soli non possono sollevare un intero continente.
L’ironia di questa tragedia è che qualcosa di sistemico lo abbiamo comunque prodotto. Ma non è una gestione, bensì un rischio.
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Twitter: @Phastidio
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