di Mario Seminerio – Libertiamo
Prosegue il giro di consultazioni europee del premier Mario Monti, in attesa dell’Eurogruppo del 23 gennaio, ennesima tappa del processo che dovrebbe condurre alla realizzazione dell’accordo intergovernativo per realizzare quella “unione fiscale” fortemente voluta dai tedeschi ma che unione non è, essendo al momento sprovvista di qualsivoglia elemento di mutualità. Anche attraverso l’azione di Monti, e la sua capacità di intessere alleanze, saranno possibili cambiamenti che portino ad una definizione meno semanticamente orwelliana del concetto di unione, con o senza la maiuscola.
Monti ha iniziato la sua ricognizione da Parigi, con l’ammaccato Nicolas Sarkozy, assediato dal socialista François Hollande e dalla recessione fortemente voluta dalla Germania. Mai come nel caso di Sarkozy possiamo dire che il re è nudo: la Francia ha ormai perso, agli occhi dei mercati, la sua Legion d’Onore della tripla A, stressata com’è dall’affanno a tenere il passo mercantilista e iper-produttivistico tedesco, che non le appartiene per storia, cultura e modello di sviluppo. Nel cupo discorso di fine anno, Sarkozy si è ribellato alla logica dell’austerità come valore in sé, promettendo uno stop alle manovre di consolidamento fiscale e l’avvio di una “fase due” transalpina che in realtà ha per obiettivo il “primo, non prenderle” tanto caro a Gianni Brera ad all’italianissimo “catenaccio”. La pietra angolare della fase due francese è infatti una “svalutazione interna” da ottenere con un aumento dell’Iva che finanzi una riduzione del costo del lavoro. Tutto il dibattito pubblico transalpino, in questi giorni, verte su questa manovra, definita “anti-delocalizzazione”.
Il problema, però, data la congiuntura, è che un aumento Iva finisca solo col servire a tamponare nuovi buchi di bilancio pubblico. Tale è il clima in Europa, sotto la cappa della pesantissima recessione autoinflitta per volere tedesco, e sulla quale è stato messo il carico di un credit crunch certificato dagli improbabili stress test dell’EBA. In questo contesto, Mario Monti può ben appuntarsi alcune inequivocabili medaglie, prima fra tutte quella di una manovra monstre, purtroppo realizzata con l’ennesimo feroce aumento del carico fiscale, sotto il peso dell’emergenza. Ma con la imminente presentazione delle proposte di liberalizzazione strutturale, il nostro paese avrà ancor maggiore titolo per sostenere in Europa di aver fatto i compiti e chiedere altrettanti sforzi ai nostri partner, soprattutto alla Germania.
Comprensibile la distorsione imposta al dibattito pubblico dalle scadenze elettorali (segnatamente quella tedesca), ma compito del nostro paese è quello di porre la Germania di fronte alla responsabilità di una sinora disastrosa gestione della crisi, come la tragica condizione greca testimonia ogni giorno agli occhi del mondo, dopo il diktat di Berlino di obbligo di compartecipazione dei privati al dissesto sovrano. Misura astrattamente condivisibile, ma che ha regalato all’intera Eurozona un drammatico effetto-contagio, di cui la vittima maggiore (per dimensioni e potenziali conseguenze) è il nostro paese. Poi i tedeschi si sono inventati che la crisi derivava da lassismo fiscale, senza trovare contrasto alcuno né tra i governi né nel mainstream accademico. Ma sappiamo che questa narrativa è fallace, visto dove erano i conti pubblici di Spagna ed Irlanda, prima dello scoppio della crisi. Vivere di profezie che si auto-avverano sembra essere la maledizione europea.
Oggi siamo al nuovo golem tedesco, chiamato fiscal compact, che rischia di perpetuare l’equivoco: non bastano conti pubblici in pareggio, serve identificare gli squilibri macroeconomici ed intervenire. Ma siamo certi che riusciremo a creare una struttura di controllo ed indirizzo sovranazionale delle politiche economiche e della competitività? Oppure ci fermeremo ben prima, facendoci bastare pareggi di bilancio ferocemente pro-ciclici ottenuti con aumenti di imposte che zavorrano la crescita potenziale e perpetuano squilibri e instabilità? Siamo poi certi che il “modello tedesco”, basato sulle esportazioni, sia applicabile all’intera Eurozona? E soprattutto, siamo certi che i mercati ci daranno il tempo per apprestare le strutture di controllo, tra referendum nazionali e crescenti tensioni sociali?
Perché questo è il rischio: che la forte stretta fiscale, che fatalmente piagherà l’Eurozona e non solo i suoi paesi meno virtuosi, si declini nella nascita di movimenti populistici. Le avvisaglie ci sono tutte: in Francia Marine Le Pen è la spina nel fianco di Sarkozy, in Italia la ex maggioranza racconta quotidianamente la fiaba intitolata “un altro mondo è possibile”, dopo i suoi catastrofici fallimenti che hanno imbalsamato il paese nell’ultimo decennio, portandoci a questo punto.
In questo sentiero molto stretto si muoverà Mario Monti. L’occasione storica è quella di modernizzare il paese, rendendolo più competitivo. Ma questo non può e non deve accadere sotto le austere bombe tedesche. L’emergenza contabile produce invariabilmente strette fiscali. In questo momento all’Eurozona serve una pausa, che non sia occasione per riaffermare antiche indiscipline di bilancio, vere o presunte, né per un impossibile deficit spending. Un altro dei totem tedeschi e degli Austeri che li fiancheggiano è pensare che il livello dei tassi d’interesse sia la spia della sanzione dei mercati contro l’indisciplina fiscale. Oggi, non c’è nulla di più fallace. I mercati vendono il nostro debito sovrano, e si tengono lontani dall’Eurozona, perché temono il caos di governance e la feroce stretta fiscale in atto. Lo ha riconosciuto anche il capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard: una stretta fiscale eccessiva tende ad allargare lo spread, non a diminuirlo. Con buona pace di Schaeuble. A volte serve anche guardare ai dati di mercato, non solo ai modelli economici.
Che fare, quindi? Mario Monti dovrebbe, a nostro giudizio, battere sul rallentamento del processo di pareggio di bilancio, subordinandolo alla fase del ciclo in cui ci troviamo, per evitare devastanti effetti pro-ciclici. In questo modo si manterrebbe la pressione dell’urgenza ma senza la pistola alla tempia di un incipiente crack da fuga degli investitori, peraltro già in atto. Discorso analogo per la riduzione del rapporto debito-Pil che, nella sua formulazione “stupida”, oggi ci chiederebbe manovre annue per non meno di 45 miliardi di euro, semplicemente impensabili in assenza di crescita. Il nostro paese si presenta all’Europa con una correzione imponente e senza precedenti della spesa pensionistica prospettica, la maggiore ipoteca alla dinamica futura della spesa pubblica. Non possiamo non porre sul tavolo, anche con forza, questo risultato.
Poi, come sta già accadendo, Monti non dovrebbe deflettere dalla richiesta di apprestare un vero fondo di sicurezza per future assistenze finanziarie. L’EFSF è morto nella culla, l’ESM non ha ancora visto la luce, l’idea di chiamare il FMI e qualche paese emergente a puntellare gli errori europei è demenziale. Ma serve trovare uno scudo, in caso lo sciopero dei mercati dovesse proseguire, ed uno scudo che abbia sufficienti risorse, per tranquillizzare i mercati anche senza doverle utilizzare. Sarà difficile evitare di chiamare in causa la Bce, peraltro.
E facciamo anche uno sforzo per aiutare la Germania a curare le sue storiche amnesie: la riunificazione tra Est ed Ovest tedesco venne compiuta nel più completo disinteresse delle ragioni e delle esigenze dei partner europei. Il cambio tra marchi dell’Est e dell’Ovest avvenne alla pari, a fronte di un cambio reale di 5 contro 1. La successiva ondata di liquidità che allagò il continente, ed il forte deficit di bilancio federale legato ai costi della riunificazione spinsero la Bundesbank ad una pesante stretta monetaria che coinvolse tutta l’area, creando scompensi e causando l’uscita dal Sistema Monetario Europeo di Regno Unito e Italia, nel 1992. Come il nostro paese tornò ad essere “virtuoso”, convergendo all’euro, è noto: con una poderosa stretta fiscale, che lasciò intatti i nostri storici squilibri. Cerchiamo di non ripetere la storia, per favore. Anche perché in questo caso avremmo una tragedia autentica, e non una farsa.
Abbiamo di fronte una opportunità storica per cambiare questo paese, ammesso e non concesso che la nostra ultra-corporativizzazione terminale ed il nostro populismo malato lo consentano. Un ulteriore passo sulla strada dell’aumento della pressione fiscale, sotto il peso dell’emergenza, potrebbe esserci fatale. Non permettiamo alla Angst tedesca di distruggere un intero continente.
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