di Mario Seminerio – Libertiamo
Il prossimo 5 dicembre il governo italiano presenterà le misure di correzione della nostra finanza pubblica, per l’ennesima volta in questo anno orribile, che rischia peraltro di essere migliore di quello che sta per arrivare. Successivamente, nel corso del vertice dei capi di stato e di governo europei dell’8 e 9 dicembre, dovrebbe vedere la luce il nuovo patto di stabilità dell’Eurozona, fortemente voluto dai tedeschi e subìto dai francesi, che continueranno a fingere di essere battistrada mentre in realtà sono sempre più affannato gregario di Berlino. Non abbiamo dettagli della manovra italiana, oltre quelli che che da molti giorni rimbalzano sulla nostra stampa. Abbiamo tuttavia alcuni punti fermi. Proviamo ad indicarli, senza pretesa di esaustività.
In primo luogo, occorrerebbe evitare di ruminare la vulgata delle ultime settimane, quella secondo la quale davanti allo morte ed allo spread saremmo tutti uguali ed ignudi. Riguardo la prima è certamente così, riguardo il secondo (che qualche mattacchione ha reso di genere femminile, forse suggerendone in modo vagamente sessista l’ingannevole seduttività), tutti i governi sarebbero uguali, come i gatti resi bigi dalla notte. Tutti colpevoli, nessun colpevole, quindi? Non è esattamente così. La coalizione guidata da Silvio Berlusconi ha avuto circa un decennio e soprattutto un triennio, dopo l’inizio della Grande Recessione, per apprestare riforme di struttura e tentare di innalzare la nostra crescita. Ciò non è accaduto, la nostra crescita è rimasta a zero (in realtà in declino, vista la decrescita del Pil pro-capite) ed i mercati si sono vieppiù innervositi.
Nervosismo aiutato in modo rilevante dai marchiani errori delle cosiddette autorità europee, e dal frastuono moralisteggiante proveniente dalla Germania. Cominciato con la compartecipazione dei privati alle perdite dei dissesti sovrani (principio astrattamente condivisibile ma declinato operativamente in modo a dir poco disastroso); alla sovraordinazione a tutti gli altri creditori del fondo salvastati che verrà, l’ESM; ai folli stress test di ottobre, costruiti per penalizzare massimamente (non sapremo mai se per dolo o colpa) il sistema bancario italiano, ed alleggerire il peso dell’aggiustamento su quello francese, premiando oltre misura la “fuga verso la qualità” rappresentata dal debito tedesco. Resta il fatto che, se questo sciagurato paese avesse adottato nell’ultimo decennio riforme vere, per piegare lo stock di debito attraverso la crescita, l’attacco speculativo agevolato dagli errori capitali tedeschi sarebbe stato probabilmente meno devastante. Mario Monti non è un supereroe della Marvel, a differenza di Silvio Berlusconi. Non riuscirà in poche settimane a sanare una situazione compromessa da un decennio di incuria anti-riformistica e conservazione ultracorporativa.
Cosa ci si aspetta, quindi, dal governo Monti? Non i miracoli, come detto, né un balzo del nostro Pil in un momento in cui è in atto un violento credit crunch causato dalla dabbenaggine dei regolatori europei. Ci si aspettano comunque riforme di struttura su mercato del lavoro e spesa previdenziale. Ci si aspetta una manovra che non sia, pur nella drammatica emergenza che stiamo vivendo, centrata solo su aumenti di pressione fiscale ma anche su una riqualificazione di lungo periodo della spesa. Ci si aspetta anche, a dire il vero, che si metta mano alla legislazione sulla corruzione, recependo nel nostro ordinamento penale le convenzioni europee, rimaste finora lettera morta. Perché il paese non può sopravvivere se resta assediato da satrapi e parassiti. Volendo scrivere la lettera di Natale a Babbo Mario, si potrebbe anche chiedere una profonda revisione degli sconci meccanismi di rimborso elettorale.
Ciò premesso ed auspicato, dopo l’implementazione della nostra “impressionante” manovra, come è stata definita dalla sciagurata Merkel, ci si attende (ma probabilmente Monti lo ha già fatto capire, al “dinamico duo” franco-tedesco) che si dia il via libera al coinvolgimento della Banca centrale europea nelle operazioni di “tutela” della stabilità finanziaria dell’Eurozona, come farebbe qualsiasi banca centrale “vera”. Le tecnicalità di questo coinvolgimento le lasciamo alla fantasia (spesso malata) degli eurocrati: anche un mega-prestito della Bce al Fondo Monetario Internazionale farebbe al caso. Basterebbe la sola minaccia di usare l’arma definitiva, e saremmo a metà dell’opera di fare tornare nel nostro vecchio e quasi terminale continente la fiducia e la liquidità degli investitori internazionali, che le scelte dell’egemone tedesco hanno fatto evaporare nelle ultime settimane.
Ma anche se ciò accadesse, saremmo forse neppure a metà dell’opera, perché dovremmo (e dovremo) comunque affrontare una gravissima recessione, nell’anno della fine del mondo preconizzata dai Maya. La stessa struttura del “nuovo” patto di stabilità disegnato dai tedeschi, che tanto ricorda quello che gli stessi tedeschi affossarono, alcuni anni addietro, dovrà spiegarci come intende gestire lo squilibrio esistenziale dell’Eurozona: il differenziale di competitività tra nucleo germanico e periferia. Quel gap, colmato negli ultimi dieci anni da imponenti riciclaggi di capitali da paesi in surplus a quelli in debito, si è improvvisamente riaperto con violenza negli ultimi anni. Se avessimo valute differenti, il problema non si porrebbe. I paesi in crisi di bilancia dei pagamenti vivrebbero forti svalutazioni del cambio ed altrettanto profonde recessioni, al termine delle quali si giungerebbe al riequilibrio. Avendo per contro una valuta unica, serve altro. Serve che si crei un differenziale di ragioni di scambio a favore dei paesi oggi meno competitivi. Un processo lento e doloroso che si raggiunge con una deflazione interna ai paesi meno competitivi, se i paesi in surplus non ritengono di accettare per sé un po’ di inflazione aggiuntiva e/o di promuovere politiche espansive della propria domanda interna.
Se il nuovo patto di stabilità perseguirà la correzione di questi squilibri fondamentali e non solo un tremontianamente ragionieristico pareggio di bilancio, avremo qualche speranza di uscirne, ma solo dopo aver apprestato delle forme di trasferimento “compassionevole” verso i paesi che dovranno imbarcarsi in processi di aggiustamento molto dolorosi. Che ciò sia realizzato con una cosa chiamata eurobond, con prestiti del Fondo monetario internazionale o (meglio ancora) con quelli di un futuribile “Fondo monetario europeo” coadiuvato dalla Bce sotto strette condizionalità di riforma dei paesi assistiti, cambia poco: serviranno comunque degli “ammortizzatori macroeconomici” e servirà capire che, in una delle maggiori aree economiche del pianeta, una stretta fiscale simultanea e violenta, senza un accomodamento monetario fornito da una banca centrale “vera”, porta solo a sciagure, soprattutto se gestita con un intento moralisticamente punitivo.
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