Il Gop gioca coi numeri

A salvare l’America non sarà il libro dei sogni di Paul Ryan

di Mario Seminerio – Libertiamo

Nei giorni scorsi, i Repubblicani della Camera dei Rappresentanti hanno illustrato, per voce del presidente del Budget Committee, Paul Ryan, un piano di lungo termine di risanamento fiscale che, secondo i proponenti, dovrebbe produrre in un decennio una riduzione di deficit pari a 1600 miliardi di dollari. Visto da vicino, il piano Ryan appare soprattutto un libro dei sogni, impreziosito da furbizie contabili sorrette da assunzioni irrealistiche, ed un impianto generale fortemente regressivo.

Il piano prevede nel decennio una riduzione di spesa per 5800 miliardi di dollari ed un taglio d’imposte per 4200 miliardi, calcolati sullo scenario base (baseline scenario) elaborato dal Congressional Budget Office (CBO). Dei 5800 miliardi di dollari di tagli, ben 1300 vengono da minori spese per gli  impegni bellici in Iraq ed Afghanistan. Ma tali spese sono già previste venir progressivamente meno: lo scenario base del CBO ipotizza che le somme utilizzate per Iraq ed Afghanistan (le cosiddette appropriations), e che fanno parte delle spese discrezionali (quelle per le quali viene stabilito di anno in anno l’impegno di spesa), restino invariate al livello corrente. Applicando invece il piano di progressivo disimpegno da questi due fronti militari previsto dallo stesso Obama, si ottiene già una riduzione di spesa per circa 1000 miliardi di dollari nel decennio. Da qui, un primo risparmio proveniente dalla proposta Ryan che semplicemente non è tale.

Degli altri risparmi di spesa, ben 2170 miliardi derivano da tagli al Medicaid ed alla “riqualificazione” della spesa sanitaria. In particolare, per il Medicare (l’assistenza sanitaria erogata agli ultrasessantacinquenni), Ryan prevede l’erogazione di un sistema di vouchers per l’acquisto di polizze sanitarie private, che entrerebbero in vigore nel 2022, ma solo per quanti rientrerebbero nella copertura Medicare a partire da quell’anno, cioè per quanti oggi hanno 55 anni, mentre gli ultracinquantacinquenni manterrebbero il regime corrente. Questi vouchers, definiti “importi a contribuzione definita”, verrebbero adeguati di anno in anno al solo costo della vita. Il problema è che la spesa sanitaria in termini reali, negli Stati Uniti, è cresciuta ogni anno negli ultimi trent’anni di circa 2 punti percentuali più del Pil pro-capite. Di questa inflazione sanitaria si è discusso e si discute da tempo. Secondo alcuni, si tratta dei forti progressi di una società tecnologicamente all’avanguardia; secondo altri, di un sistema di incentivi perversi che determina esiti di sovramedicalizzazione.

Come che sia, circa metà dei tagli di spesa sanitaria deriverebbero dalla disapplicazione della riforma sanitaria di Obama, che prevede sussidi per permettere a tutta la popolazione di ottenere copertura sanitaria. Di fatto, gli ultrasessantacinquenni del 2022, in regime di vouchers e polizze private, dovrebbero pagare di tasca propria una quota crescente dei costi sanitari, ammesso e non concesso di restare assicurabili. L’Affordable Care Act di Obama prevede la creazione di un unico pool di soggetti assicurati proprio per evitare quei casi di fallimenti di mercato in cui una persona non riesce ad ottenere copertura assicurativa, a causa di patologie. Secondo il CBO, l’esborso out-of-pocket degli anziani passerebbe da 6.150 a 12.500 dollari nel primo anno di applicazione della riforma, per poi proseguire in un trend di crescita che porrebbe in gravi difficoltà gli anziani con meno risparmi e minore reddito. Avremmo quindi un drastico impoverimento della popolazione anziana, che difficilmente sarebbe politicamente tollerabile. Da qui, la natura illusoria dei risparmi conseguibili.

Altri pesanti tagli sanitari (pari a 1400 miliardi di dollari nel decennio) interesserebbero il Medicaid, che verrebbe trasformato in un’erogazione in somma fissa agli stati, con indicizzazione solo per inflazione e crescita della popolazione, ma non corretta per l’invecchiamento. Il Medicaid, nella forma attuale, svolge per contro anche funzioni di stabilizzatore automatico, oltre che di programma anti-povertà, visto che le sue dimensioni si accrescono durante le fasi recessive. Anche in questo caso, per il governo federale si tratterebbe di una maggiore prevedibilità degli esborsi, mentre gli stati finirebbero col subire il grosso degli aggiustamenti, in caso decidessero di tenere invariate le modalità di copertura. Il CBO stima che la manovra Ryan determinerebbe un ridimensionamento del programma, rispetto ai valori odierni, del 35 per cento nel 2022 e del 49 per cento nel 2030. Nel complesso, è facile prevedere effetti fortemente prociclici durante le fasi recessive. Non un modo particolarmente intelligente di riformare il welfare.

Il piano Ryan prevede anche altri tagli, per complessivi 750 miliardi di dollari nel decennio, relativi a programmi di sostegno agli strati disagiati della popolazione, come i sussidi al riscaldamento (che Obama ha già iniziato a tagliare) e le borse di studio Pell. Persino i food stamps, di cui oggi beneficia il numero record di 43 milioni di cittadini statunitensi (un adulto su otto ed un bambino su quattro), verrebbero fortemente ridimensionati.

Dei 5800 miliardi di presunti risparmi, un terzo andrebbe a riduzione del deficit, e due terzi (pari a 4200 miliardi) a taglio delle imposte. Ryan prevede che l’aliquota sulle società e quella massima sulle persone fisiche vengano portate al 25 per cento. A suo giudizio ciò determinerebbe, già nel primo anno di applicazione, un rimbalzo dell’attività produttiva ed una riduzione di ben due punti percentuali della disoccupazione. Per sviluppare le simulazioni, il think tank conservatore Heritage Foundation è giunto a prevedere un tasso di disoccupazione, a regime, del 2,8 per cento, mai visto neppure nei momenti di crescita più vigorosa nella storia degli Stati Uniti. A seguito delle vibranti critiche ricevute su tali simulazioni, dal documento online della Heritage quel tasso di disoccupazione è poi scomparso.

L’esercizio di Ryan parte da alcuni dogmi, come il fatto che l’incidenza della tassazione federale in rapporto al Pil non debba eccedere il 19 per cento, come avvenuto in media dal Dopoguerra ad oggi. Ma questa lettura sembra ignorare che le fasi di crescita economica più vigorosa, nella storia americana recente, hanno coinciso con una pressione fiscale federale in rialzo fin verso il 20 per cento del Pil (secondo mandato Clinton), mentre negli ultimi quattro anni, con un’incidenza fiscale federale al 16,5 per cento del Pil, la crescita media non ha superato l’1 per cento.

In definitiva, quello di Ryan è un esercizio, verosimilmente ad uso del rapporto dialettico tra Gop e Tea Parties, basato su assunzioni spericolate e su interventi fiscali fortemente regressivi e dall’impatto prociclico. Difficilmente vedrà la luce, anche solo in parte, men che mai prima delle elezioni del 2012. Ai Repubblicani continua a mancare una strategia di politica fiscale che non sia ideologica bensì realistica. Di questo passo, Obama potrebbe davvero avere buon gioco a presentarsi come il leader centrista impegnato a risanare il paese senza demagogia né macelleria sociale, ottenendo l’imprescindibile sostegno degli elettori indipendenti.


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