di Andrea Gilli
La guerra contro la Libia è oramai iniziata. Vale la pena mettere nero su bianco qualche promemoria, per le settimane e i mesi a venire.
In primo luogo, come diceva Clausewitz, la guerra è un fenomeno estremamente semplice, ma in guerra, anche le cose più semplici diventano difficili. La disparità tecnologico-militare tra l’Occidente e la Libia è enorme. Ciò non significa, però, che un’azione militare contro la Libia sarà una passeggiata. Nel 1999, la Serbia di Milosevic non era esattamente una Grande Potenza. Ciononostante, questa seppe prendere intelligenti contro-misure e complicare significativamente le attività belliche NATO. E’ probabile che Gheddafi segua la stessa strategia.
Infatti, Gheddafi ha tutto l’interesse a ritardare e complicare l’attuazione della no-fly zone. Pertanto, potrebbe verosimilmente agire di conseguenza. Da una parte, potrebbe cercare di proteggere le sue difese anti-aeree mobili dagli attacchi alleati. Così facendo, una eventuale no-fly zone comporterà più rischi e dunque verrà ritardata o alleggerita.
Allungando i tempi per una no-fly zone e minacciando gli aerei alleati, la Libia indebolirebbe la compattezza della coalizione: l’obiettivo ultimo della sua strategia. A tal fine, Gheddafi potrebbe ricorrere anche ad altri mezzi. Quattro sembrano particolarmente utili: profughi, idrocarburi, vittime civili e terrorismo. Come e se li userà non ci è dato sapere, è però facile identificare in questi fattori degli utili strumenti di ritorsione contro i Paesi alleati.
Il secondo punto che merita attenzione riguarda il potere aereo. Vale la pena non illudersi: questo non risolverà la crisi libica. La no-fly zone non bloccò il massacro di Srebrenica. Dieci anni di no-fly zone non fecero cadere Saddam Hussein. E’ possibile che in Libia le cose vadano diversamente. Ma è più facile che sia vero il contrario. Anche nella migliore delle ipotesi – un’immediata caduta di Gheddafi – è difficile pensare ad una rapida riconciliazione del Paese. Chi ha finora vissuto sotto la protezione del regime sarà – di colpo – vulnerabile. Come è successo in Iraq, ciò più che calmierare le violenze le accelererà e le allargherà.
Ciò ci porta alla terza considerazione: è necessaria una chiara strategia politica. Al momento, non la vedo. E’ possibile che Sarkozy, Cameron e Obama l’abbiano già formulata, ma propenderei per l’interpretazione opposta. Cosa siamo disposti ad offrire, e ad accettare da, Gheddafi per la fine delle violenze? Fino a dove siamo disposti ad andare per proteggere Benghasi (invasione di terra?)? E soprattutto, una volta caduto Gheddafi, cosa si fa? Come evitiamo che scoppi una guerra civile? Queste sono solo alcune delle domande a cui bisogna dare una risposta. L’alternativa è il caos che abbiamo visto in Iraq dal 2003 fino all’altro ieri.
Ultima considerazione: questi interventi sono spesso lanciati sotto la spinta manichea di dividere il mondo tra buoni e cattivi. Va sempre ricordato che là dove ci sono tensioni e conflitti che risalgono a generazioni, se non secoli, fa, è difficile rintracciare la parte del torto e della ragione. In Kosovo siamo intervenuti per proteggere gli albanesi kossovari dai serbi kossovari. Finito l’intervento, abbiamo poi dovuto proteggere i serbi kosovari dagli albanesi kosovari. Il rischio è che lo stesso succeda anche in Libia. La speranza, per il momento, è che la Libia non diventi quel porto di traffici clandestini che è attualmente il Kosovo. Viste le dimensioni del territorio libico, questa sarebbe una sciagura.
P.S.: qualcuno suggerisce che l’intervento in Libia servirebbe a distogliere l’attenzione dalla violenta repressione che sta avendo luogo in Bahrain e in Yemen. A pensar male si fa peccato, ma spesso si ha ragione.
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