di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano
Con la capitolazione dell’Irlanda, che riceverà aiuti da Unione europea, Fondo Monetario Internazionale e Regno Unito, si apre la seconda fase della crisi di euro-debito, dopo le misure adottate mesi addietro per isolare la Grecia dai mercati per un triennio, nell’attesa che il risanamento proceda. La radice della crisi irlandese è data dal peso delle perdite su crediti immobiliari sul bilancio del sistema bancario del paese. Non è servito a nulla avere creato una struttura (la NAMA) preposta a rilevare i crediti dalle banche a prezzo scontato e successivamente ricapitalizzare le banche, per salvarle dall’insolvenza indotta dalle minusvalenze causate dai crediti tossici.
Il male ha proseguito a fiaccare l’organismo creditizio del paese, con perdite su crediti in continua espansione, dapprima su Anglo Irish Bank, in seguito su Bank of Ireland e Allied Irish Bank. In estrema sintesi il sistema bancario irlandese, la cui dimensione economica ha finito con l’eccedere quella del paese, è stato reso insolvente dalle perdite su crediti. Il governo di Dublino ha a lungo negato l’esigenza di aiuti internazionali, affermando di disporre di liquidità sufficiente a coprire la prima metà del 2011. Poi ha affermato che l’intervento avrebbe dovuto interessare le banche e non lo stato sovrano, ma si tratta di una foglia di fico, poiché il sistema creditizio irlandese è ormai integralmente garantito dallo stato sovrano. Tra le motivazioni della resistenza agli aiuti vi era inoltre il timore che la Ue potesse porre come condizione l’aumento dell’aliquota d’imposta sulle società, oggi al 12,5 per cento, vista dagli altri paesi europei come una sorta di dumping fiscale, e che ha finora consentito a Dublino di attrarre e mantenere multinazionali, spesso con pratiche fiscali piuttosto eterodosse e basate su triangolazioni con paradisi fiscali.
La crisi è stata precipitata anche dalla presa di posizione della Germania, che richiede che dal 2013 gli investitori compartecipino ad eventuali dissesti sovrani, subendo una decurtazione del valore dei propri crediti. I mercati sono entrati subito in fibrillazione, anticipando che ogni titolo di stato emesso oggi per scadenza successiva al giugno 2013 avrebbe scontato il rischio di decurtazione. Le voci di mercato che ipotizzavano l’immediata adozione di tale processo hanno prodotto reazioni prossime al panico, costringendo tedeschi e francesi a smentire. Che accadrà, ora? E quali altri paesi saranno coinvolti in quello che appare un crollo al rallentatore della periferia di Eurolandia?
Questa crisi si è assunta un compito fondamentale: sconfessare le certezze di economisti, analisti ed osservatori politici. Quando la Grecia necessitò del salvataggio, tutti dissero che all’Irlanda una cosa del genere non sarebbe potuta accadere, trattandosi di un paese evoluto, moderno e liberalizzato. Ma nel caso di Dublino i problemi non sono venuti da insufficiente capacità di incassare le tasse o da corruzione endemica, come nel caso di Atene, bensì dal gigantismo del sistema creditizio rispetto al paese. Il prossimo sulla lista dei sospetti, il Portogallo, soffre per contro di insufficiente competitività ed incapacità di generare crescita ed esportazioni. Cambiano le determinanti, ma non il risultato: i mercati temono l’espansione del debito, e votano la sfiducia, vendendo.
Quante sono le probabilità che l’Italia possa essere tra i prossimi sulla lista nera? Il nostro paese ha un deficit contenuto ed un debito elevato, in proporzione al pil. I mercati hanno finora mostrato di temere soprattutto la progressione del rapporto debito-Pil. Il nostro paese è caratterizzato da una crescita anemica, che dura da circa un quindicennio. Il debito si autoalimenta quando il tasso di crescita reale è inferiore al costo reale medio del debito. Situazione che l’Italia vive da tempo, salvo rare eccezioni. Non è un caso che il nostro rapporto debito-Pil negli ultimi due anni abbia subito un aumento di circa 12 punti percentuali, solo in parte riconducibile alla crescita del deficit .
Come ha evidenziato anche il capo economista dell’Ocse, Pier Carlo Padoan, l’Italia ha un problema strutturale: bassa crescita ed elevato debito. Quando un debitore non cresce ed ha un elevato stock di debito, la situazione può restare stabile anche per protratti periodi di tempo, ma presto o tardi il mercato riconosce il potenziale di dissesto di un simile debitore ed applica premi al rischio crescenti, che determinano il realizzarsi della profezia attraverso l’aumento del costo del debito.
Pensare che il nostro paese possa essere immune da una crisi di debito per il solo fatto che non abbiamo un elevato indebitamento del settore privato o un sistema bancario sovradimensionato rispetto al paese è approccio miope. La crisi muta ad ogni passaggio, ma la radice è una sola: l’insufficiente capacità di crescere per uscire dalla trappola del debito.
(Pubblicato il 21 novembre 2010)
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