Le origini del Realismo – Capire le relazioni internazionali/2

di Mauro Gilli

L’approccio dominante nelle relazioni internazionali è il neorealismo (che verrà affrontato in maniera più dettagliata prossimamente). La più grande scuola alla quale esso appartiene, quella del realismo politico, è anche la più antica in relazioni internazionali. Le sue origini possono essere trovate infatti negli scritti di Kauthila (India, IV secolo AC), Tucidide (Grecia, V secolo AC), e Sun Tzu (Cina, VI secolo AC). Contributi al realismo sono venuti inoltre da Machiavelli, Guicciardini, Hobbes, Hume e Von Ranke, fino ad approdare ai contemporanei, i cosiddetti “realisti classici” (Nicholas Spykmann, Edward Hallett Carr, Hans Morgenthau e George Kennan) e i “neorealisti” (Kenneth Waltz, Robert Gilpin, Stephen Walt, Jack Snyder e John Mearsheimer).

Ognuno di questi autori meriterebbe una trattazione a parte, che per evidenti ragioni di spazio e tempo non è possibile. In questo post illustrerò brevemente quali sono i contributi principali dei precursori del realismo, focalizzandomi principalmente su Tucidide e Hobbes, e concludendo con alcuni brevi accenni a Machiavelli, Hume e Von Ranke. Successivamente, in alcuni post distinti, illustrerò il contributo degli autori più contemporanei (i realisti classici); e infine il neorealismo come programma di ricerca.

Prima di iniziare, è necessaria una precisazione. Questo articolo non vuole entrare nei dibattiti tra filosofi, storici del pensiero politico e teorici politici sulle diverse interpretazioni che accompagnano la lettura degli autori trattati. Vuole semplicemente illustrare i “punti di partenza” che gli studiosi contemporanei hanno rintracciato in epoche precedenti, in modo da aiutare la successiva trattazione di questi stessi studiosi.

Tucidide

Tucidide viene citato ad nauseam dai realisti. E ciò è più che comprensibile. Nella sua Storia della Guerra del Peloponneso (precisamente, la seconda guerra del Peloponneso) è possibile trovare quasi tutti i concetti fondanti del realismo e del neorealismo. Anche se interpretazioni differenti esistono (come quelle che trovano in Tucidide punti di partenza per la teoria critica piuttosto che per il femminismo), vi è un consenso largamente diffuso tra gli studiosi di relazioni internazionali nel posizionare Tucidide come uno dei grandi precursori delle teorie realiste.

La Storia delle Guerre del Peloponneso non è solamente un libro eccezionale, avvincente ed estremamente facile da seguire, è anche uno dei primi tentativi di studiare e capire la storia per trarne delle generalizzazioni. Ad una prima lettura, è facile pensare che la modestia non fosse una delle migliori qualità di Tucidide. Per spiegare lo scopo del suo lavoro, l’ex generale ritiratosi dalla guerra affermava infatti che il suo “non è uno scritto che mira ad accontentare i gusti dei lettori contemporanei; ma è stato pensato per restare nell’eternità”. In questa frase, vi è invece proprio il suo primo grande contributo: la consapevolezza che la storia sia guidata dunque da leggi ferree (aspetto che ritroveremo in Von Ranke, Hume, e poi successivamente in Morghentau e nei neorealisti come Waltz e Gilpin). Ne deriva quindi la necessità di capire queste leggi; e, implicitamente,  la natura eterna del suo contributo.

Se la storia si ripete, e se vi sono fattori che guidano, influenzano e persino determinano gli eventi tra i popoli indipendentemente dal tempo, dallo spazio, dalla religione, e dalle idee, allora è necessario capire quali siano questi fattori. Il dialogo dei Meli, quello più famoso di tutta La Storia del Peloponneso, descrive al meglio l’interpretazione di Tucidide. Di fronte all’ultimatum imposto dagli Ateniesi tra la sottomissione e la morte, i Meli risposero invocando principi solenni e altisonanti come la giustizia, la morale e persino l’intervento ultimo degli dei in loro difesa. Argomenti che però non furono sufficienti a convincere gli Ateniesi, consapevoli invece che le relazioni tra i popoli siano inevitabilmente dettate dai rapporti di forza: “come voi sapete” risposero gli Ateniesi,

“e lo sappiamo bene anche noi, da che mondo è mondo, la giustizia può esistere solo tra attori di forza eguale; diversamente, i forti faranno ciò che vogliono, e i deboli subiranno ciò che devono.”

Se i rapporti di forza sono evidenti tra forti e deboli, tra Ateniesi e Meli, tra grandi e piccoli paesi, così come lo sono i loro effetti, quale ruolo giocano tra le grandi potenze? Quale ruolo giocano i rapporti di forza tra paesi che, teoricamente, sono “di forza eguale”? Tucidide capì che la guerra tra Atene e Sparta non era una guerra normale, ma una guerra che appartiene ad una categoria diversa, che oggi chiamiamo “guerra egemonica”: una guerra tra grandi potenze per il controllo del sistema internazionale (come la guerra dei trent’anni, 1618-1648; le guerre Napoleoniche, 1798-1815; la Prima Guerra Mondiale, 1914-1918; e la Seconda Guerra Mondiale, 1939-1945). E  proprio relativamente a queste guerre, e alla necessità di prevenirle, si focalizza la sua attenzione. Se i rapporti di forza sono fondamentali nei rapporti tra gli uomini, altrettanto importanti sono le motivazioni che guidano le loro azioni, “interesse, orgoglio e paura” secondo Tucidide.

Ed è proprio in quest’ultimo aspetto, la paura, insieme al cambiamento dei rapporti di forza, che Tucidide individua il fattore scatenante delle guerre egemoniche. Tucidide imputa infatti lo scoppio della guerra alla “crescita del potere di Atene, e nella paura che ciò ha diffuso tra i Lacedamoniani”. In altre parole, quello che oggi viene definito “security dilemma“.

Ammetto che limitare la trattazione di Tucidide agli aspetti discussi in queste poche righe non è solo riduttivo, ma anche ingiusto. Ai lettori interessati non posso che consigliare la lettura de La Storia della Guerra del Peloponneso. Per gli altri, nelle conclusioni a questo articolo illustrerò come questi aspetti siano stati ripresi dagli studiosi contemporanei.

Thomas Hobbes

Hobbes tradusse Tucidide in inglese. E l’influenza di Tucidide è facilmente percepibile ne Il Leviatano (ad esempio, per Hobbes gli uomini sono guidati dalla ricerca di “prestigio, interesse e sicurezza”, una tricotomia evidentemente simile a “onore, interesse e paura” di Tucidide). Hobbes, dopo Machiavelli, viene inoltre considerato uno dei primi “scienziati sociali”, in quanto fu uno dei primi a pensare allo studio di fenomeni sociali come ad una impresa sistematica volta a trovare leggi regolari (come anticipato, sebbene con tutti i limiti del tempo, da Tucidide più di 2000 anni prima).

Per capire Hobbes bisogna però contestualizzarlo. Così come Tucidide fu un diretto spettatore di una delle guerre più sanguinose della storia, una guerra particolare, una guerra appunto egemonica; così fu Thomas Hobbes, che infatti pubblicò il suo libro, Il Leviatano, appena tre anni dopo la conclusione di un’altra delle guerre più violente e sanguinose della storia, la Guerra dei Trent’anni. Fu lo spettacolo macabro offerto da questa guerra a influenzare il pessimismo di Hobbes.

Il suo contributo più importante è stata la concettualizzazione dello “stato di natura”. Lo stato di natura è la condizione nella quale le relazioni tra gli uomini non sono regolate da un alcuna entità suprema. In altre parole, non vi è nessuna organizzazione, usando la famosa definizione di Max Weber, che detenga “il monopolio legittimo dell’uso della forza”. E’ una condizione di anarchia, intesa come assenza di potere coercitivo.

In questa situazione, Hobbes argomentava, la libertà degli uomini è totale. Questa libertà totale si traduce dunque anche nella possibilità di uccidere altri individui. Come risultato paradossale, questa situazione impedisce però agli individui di godere di alcuna libertà, in quanto costretti a badare alla loro sicurezza. Per questo motivo, concludeva, gli uomini devono cedere parte della loro libertà (la libertà di usare la forza) ad una organizzazione suprema, Il Leviatano, che, impedendo la violenza, permetterà loro di godere di almeno una parte della loro libertà.

Relativamente alla condizione nello stato di natura, esistono due interpretazioni di Hobbes. Secondo la prima, gli uomini sono intrinsecamente egoisti, cattivi, e dunque non affidabili. Per questo motivo, nello stato di natura, gli uomini saranno portati a comportarsi tra di loro come dei lupi. Ne consegue che la vita nello stato di natura sarà inevitabilmente “corta, brutale, e orribile”. La seconda interpretazione, invece, non richiede alcun giudizio sulla natura umana. Anche le anime più candide, nello stato di natura, saranno portate a comportarsi in modo egoistico. Pena, altrimenti, la loro stessa esistenza. Gli uomini non devono essere cattivi: saranno portati alla violenza dalla ricerca della loro sicurezza personale. E’ infatti la possibilità di usare la violenza, che spinge gli uomini ad agire di conseguenza.

Come vedremo successivamente, è su queste due diverse interpretazioni che si trova la differenza tra i realisti classici citati più sopra (principalmente Morghenthau), e i neorealisti (tra tutti, Waltz). Mentre i primi partono dall’assunto che gli individui siano inevitabilmente cattivi, i secondi affermano che è la condizione anarchica a spingere gli individui ad agire per difendere la loro sicurezza.

Machiavelli, Hume e Von Ranke.

Chiunque abbia studiato Machiavelli, Hume e Von Ranke troverà banale limitare la loro trattazione a poche righe. Concordo in pieno. Come detto inizialmente, però, questo post non vuole essere una discussione filosofica, o di storia del pensiero politico. Questo post vuole illustrare i “punti fermi” fissati da alcuni autori nei secoli passati e che, successivamente, sono andati a creare le basi del realismo politico. Allo stesso tempo, questo post vuole fornire una breve introduzione, e pertanto preferiamo la sintesi all’esaustività.

Tra i vari contributi di Nicolò Machiavelli, uno di quelli più importanti è sicuramente è il suo suggerimento alla “prudenza”. Ovviamente ve ne sono altri (uno dei passaggi più citati di Machiavelli è la sua affermazione che “dal momento che l’amore e la paura possono difficilmente coesistere, se dobbiamo scegliere fra uno dei due, è molto più sicuro essere temuti che amati”). Per Machiavelli, il Principe – e per i giorni nostri i governanti in generale – è responsabile non solo della sua sorte, ma anche di quella di tutti i suoi sudditi (cittadini). Per questo, i suoi principi guida devono essere diversi da quelli che dettano il comportamento degli individui. Dunque, oltre a distinguere (come fecero successivamente altri, tra gli altri Edward Hallett Carr e Reinhold Niebuhr) tra morale pubblica e morale privata, Machiavelli invitava alla cautela, perché decisioni sbagliate (come la scelta tra guerra e pace), potrebbero portare non solo alla sua disavventura, ma a quella di tutto il regno e dei suoi sudditi, di cui il principe è, ultimamente, responsabile.

Il filosofo inglese David Hume vanta numerosi contributi in filosofia e in quelle che oggi chiamiamo scienze sociali. Tra queste vi è sicuramente la teoria dei punti dell’oro. Hume capì che le teorie mercantiliste ignoravano gli effetti autoregolativi del mercato, e la tendenza all’equilibrio. E’ proprio da questa intuizione che Hume derivò un secondo, importante contributo. Quella che oggi viene chiamata teoria dell’equilibrio di potenza (“Balance of power theory“). Altri prima di lui erano arrivati a conclusioni simili. Kauthila è generalmente considerato il primo autore a parlare di equilibrio di potenza, nel VI secolo AC, relativamente alla politica degli stati indiani. Successivamente, Guicciardini nella sua “Storia d’Italia” arrivò a usare lo stesso concetto nella sua analisi dei vari staterelli italiani all’inizio dell’età moderna. E’ però vero che questi contributi ebbero un effetto limitato sui contributi successivi degli studiosi realisti (un po’ come accadde alle opere di Cesare Beccaria, l'”Adam Smith” italiano, in campo economico). Hume ebbe invece maggiore successo, e la sua teoria dell’equilibrio di potenza si diffuse velocemente, diventando il principio guida della politica estera europea a partire dal congresso di Vienna. Secondo la teoria dell’equilibrio di potenza, la creazione di alleanze a livello internazionale è guidata dalla ricerca di un equilibrio a livello internazionale: gli stati più deboli si coalizzeranno in modo da impedire allo stato più forte di approfittare della sua condizione.

Leopold Von Ranke appartiene alla “Scuola Tedesca”. Questa scuola è importante perché fu una delle prime a sottolineare come le decisioni degli stati siano spesso influenzate non da fattori domestici, quanto piuttosto da quelli internazionali (“Innenpolitik” vs. “Aussenpolitik”). Da questa intuizione si svilupperà poi il neorealismo di Waltz.

Conclusioni

Anche se ripetuto più volte in questo articolo, vale la pena reiterare che questa trattazione è volutamente limitata e incompleta. Essa ignora interpretazioni divergenti sugli autori trattati, e di questi ha illustrato solo alcuni limitatissimi aspetti che essi hanno sollevato. Questi aspetti sono però quelli fondanti della scuola del realismo politico in relazioni internazionali. Per questo fine è stata data loro attenzione. Esistono altri autori sicuramente importanti. L’articolo è già corposo, e la sua ambizione di essere una breve introduzione ha avuto la precedenza su altre considerazioni. Spero che possa offrire un punto di partenza a chi è interessato a capire o ad approfondire lo studio delle relazioni internazionali.

Veniamo dunque a come i vari concetti trattati si uniscono insieme formando la base di partenza per i realisti classici (trattati nel prossimo articolo) e i neorealisti (trattati in quelli successivi).

Il primo punto da cui partire dunque quando si parla di realismo è lo stato di natura discusso da Hobbes. A livello internazionale non esiste alcuna organizzazione o entità che sia in grado di impedire agli stati (ciò è sicuramente vero per le Grandi Potenze) di perseguire determinati interessi e di adottare determinate politiche. Più precisamente, secondo i realisti, a livello internazionale non esiste nessuna organizzazione che detenga il monopolio della forza. Dunque, se uno stato decide di lanciare una guerra, non c’è una “polizia” che interverrà per fermare la violenza (diversamente da quanto accade all’interno degli stati).

Lo stato di natura a livello internazionale rende dunque fondamentali i rapporti di forza tra gli stati, ossia la distribuzione del potere a livello internazionale. Si ricordi il dialogo dei Meli citato più sopra: “la giustizia può esistere solo tra attori di forza eguale…”, altrimenti, vige la legge del più forte. Per questo motivo, i realisti guardano al potere come alla “moneta” che regola le relazioni tra gli stati. Proprio perché il potere è così importante, esso è una risorsa importante che non va sprecata. Di qui deriva il suggerimento machiavelliano alla prudenza e al perseguimento di una politica estera limitata negli obiettivi e nei mezzi (vi sono eccezioni, che discuteremo più avanti). Analogamente, proprio perché il potere è importante e la paura reciproca può provocare effetti nefasti, la prudenza in politica estera suggerisce di evitare di suscitare timore negli avversari, e nell’evitare il perseguimento di crociate ideologiche.

Vi è infine l’ultimo aspetto, che contraddistingue i neorealisti (ma non i realisti classici), e che proviene da Von Ranke e dagli altri esponenti della scuola tedesca: il primato della politica estera. Questo è un aspetto controverso, perché è quello più criticato del realismo. Su questi temi, tornerò nei prossimi articoli che tratteranno più in dettaglio il realismo classico prima, e il neorealismo successivamente.


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