di Mauro Gilli
Il dibattito sulla relazione tra democrazia e guerra è vecchio come il mondo. Già nell’antica Grecia, con Platone e Pericle, si trovano i primi assaggi di quello che, negli ultimi trecento anni e in particolare negli ultimi venti, è diventato uno dei più floridi filoni di ricerca nelle scienze sociali. Relativamente a questo dibattito, è nota la posizione di di Alexis de Tocqueville, autore di “Democrazia in America”, e appunto uno studioso della democrazia (e forse uno dei primi “scienziati sociali” in senso stretto). “La [conduzione della] politica estera richiede tutte le qualità di cui le democrazie non dispongono, e nessuna di quelle in cui primeggiano”, aveva scritto.
E’ davvero così? Negli ultimi cinquant’anni, la produzione accademica in materia ha dato importanti contributi. Non esiste un consenso universale tra gli studiosi in materia. Per questo motivo, può valere la pena considerare due lavori che sono stati pubblicati recentemente. Su International Organization, Jason Lyall ha pubblicato “Do Democracies Make Inferior Counterinsurgency”. Jonathan Cavelrey è l’autore del secondo saggio, pubblicato su International Security. Per quanto le conclusioni alle quali i due autori giungono siano in parte opposte, entrambi i lavori offrono riflessioni importanti – sia da un punto di vista accademico che, e soprattutto, da un punto di vista pratico.
Lyall affronta il tema da un punto di vista metodologico. Dalla sua analisi conclude che le democrazie non sono peggiori delle nondemocrazie per quanto riguarda counterinsurgency. In altre parole, per quanto difettosa, la politica estera delle democrazie non è sensibilmente più difettosa delle nondemocrazie, quando si considerano altri potenziali cause e si estende l’analisi anche ai paesi non democratici. Più precisamente, Lyall dimostra che non è la natura della democrazia di per sè a determinare l’andamento delle campagne militari. I risultati ottenuti dalle democrazie, conclude, potrebbero essere dovuti, come un suo precedente lavoro aveva suggerito, all’utilizzo dei mezzi sbagliati (l’uso intensivo della tecnologia per conflitti nei quali la sua efficacia è limitata).
Questo è il punto di partenza di Caverley, che affronta la questione in modo deduttivo. Partendo da rational choice e dal teorema dell’elettore mediano, Caverley suggerisce una interessante implicazione. Poichè nelle democrazie occidentali le entrate fiscali provengono principalmente dalle fascie sociali più benestanti, l’elettore mediano sarà favorevole ad una maggiore “tecnologizazione” della guerra. Sostituendo forza lavoro con capitale, infatti, il costo della guerra verrà sostenuto prevalentemente dalle classi più ricche. Ciò crea dunque un incentivo, per i politici: diminuendo al minimo lo sforzo umano, ed aumentando al massimo quello economico (e quindi tecnologico) in guerra, è possibile diminuire l’opposizione, e addirittura aumentare il consenso tra la popolazione per l’impegno militare all’estero. Il problema, conclude Caverley, è che counterinsurgency, come dimostrato per esempio dall’articolo citato sopra di Lyall et al. ha bisogno di soldati sul campo, non di tecnologia. Caverley conclude che le democrazie sono inevitabilmente destinate a combattere le guerre in modo inefficace.
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