di Andrea Gilli
Sull’ultimo numero del Journal of Strategic Studies è stato pubblicato un interessantissimo articolo sulle cause dell’efficacia militare. Il saggio, che ha vinto l’annual Amos Perlmutter Prize, contraddice non solo gran parte della letteratura esistente ma fornisce anche del materiale per ragionare sulle sfide di oggi. L’articolo è scaricabile online fino a fine maggio gratuitamente. Dopo questa data, è possibile accedervi o attraverso una biblioteca universitaria abbonata al JSS oppure chiedendolo a chi vi ha accesso (come studenti di dottorato).
La letteratura su military effectiveness si divide, fondamentalmente, in due campi. Da una parte, i materialisti: coloro che vedono nel possesso di fattori materiali la ragione principale del successo in battaglia. Dimensioni degli eserciti, produzione industriale, larghezza dell’economia sono tra questi fattori. Dall’altra parte si trova la letteratura sociologico-istituzionale che vede nel nazionalismo, nella coesione sociale, nel capitale umano o nelle relazioni civili-militari le variabili cruciali per vincere in guerra.
Senza riassumere tutto l’articolo, la tesi di Beckley è che la prima letteratura, usando grandezze lorde, perda di vista lo sviluppo economico. La seconda letteratura, invece, non noti come le variabili indipendenti da essa individuate fondamentalmente co-varino con lo sviluppo economico. In altri termini, è lo sviluppo economico che porta alla vittoria militare. Questo è misurabile attraverso indicatori quali il Pil pro capite o la spesa in Difesa per soldato.
Tralasciando l’analisi storica fornita dall’articolo, questa nuova teoria ha enormi implicazioni sulle relazioni internazionali, specie di oggi. In particolare, mi sembra si possano trarre tre conclusioni. Se il Pil pro capite è la variabile determinante in uno scontro militare, allora:
– più che preoccuparci dell’Iran, dovremmo preoccuparci molto di più della Cina;
– la Cina è però ancora lungi dal raggiungere il nostro Pil pro capite;
– la forza dell’Occidente rimarrà non sfidata fino a quando la sua ricchezza relativa sarà superiore a quella degli altri.
E questa inferenza è fondamentalmente coerente con la storia del Mondo moderno. Si ritorna però, anche, alla vexata quaestio che studiosi come Waltz, Gilpin, Grieco e Mearsheimer hanno sollevato più volte: fino a che punto la crescita economica degli altri ci avvantaggia. Stando a questo studio, fino a quando il nostro Pil pro capite rimane superiore. Oltre, rischiamo di diventare militarmente vulnerabili.
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