di Mario Seminerio – Liberal Quotidiano
I dati sull’occupazione statunitense nel mese di settembre, pubblicati venerdì scorso, mostrano soprattutto la preoccupante persistenza del deterioramento del mercato del lavoro. Il numero di impieghi distrutti sta rallentando, ma quello delle ore lavorate continua ad essere prossimo ai minimi storici. Quando la domanda riprende, le aziende dapprima ricorrono all’aumento delle ore lavorate, e solo in un momento successivo a nuove assunzioni. In questo senso il numero di ore lavorate rappresenta un indicatore anticipatore della congiuntura, mentre i tradizionali dati sul numero di occupati e disoccupati sono indicatori differiti.
I dati della scorsa settimana confermano che il sistema produttivo può ancora fare a meno di accrescere gli organici. Oggi si distruggono meno impieghi ma ancor meno se ne creano. Ecco la spiegazione di dati settimanali sui sussidi di disoccupazione ancora così elevati, a ben ventidue mesi dall’inizio ufficiale della recessione.
In questo contesto, le imprese americane hanno ristrutturato pesantemente gli organici: il numero di ore lavorate è crollato rispetto al prodotto aziendale, e ciò si traduce in un forte aumento di produttività e nella riduzione della leva operativa, cioè del punto di pareggio economico in rapporto ai volumi prodotti. In altri termini, le imprese stanno ponendo le basi per forti incrementi di redditività a fronte di variazioni anche contenute della domanda. La grave condizione del mercato del lavoro ha evidenti riflessi sul credito: aumento delle insolvenze e dei fallimenti individuali e d’impresa e minore capacità delle banche a prestare, dovendo preoccuparsi soprattutto di utilizzare i margini per accantonamenti a perdite su crediti.
Ci sono quindi buoni motivi per ritenere che il National Bureau of Economic Research (NBER), l’organismo indipendente che ha il compito di datare le fasi recessive, attenderà almeno la stabilizzazione del mercato del lavoro prima di dichiarare finita la recessione. E potrebbe volerci del tempo.
Storicamente, l’economia statunitense è uscita dalle recessioni per mano della spesa dei consumatori e dell’investimento immobiliare residenziale. Oggi, questi due motori di crescita sono spenti: il consumatore, dopo il soprassalto indotto dal programma di rottamazione auto, che ha anticipato flussi di acquisto futuri, è destinato a riprendere l’aumento del tasso di risparmio, per ripagare i debiti; il mercato immobiliare, che mostra i primi segni di stabilizzazione, è gravato da un imponente stock di case pignorate dalle banche a mutuatari insolventi e non ancora poste in vendita, per evitare ulteriori crolli dei prezzi. Su tutto, il reddito personale appare minacciato dalla crisi del mercato del lavoro, in un circolo vizioso molto pericoloso.
Difficile pensare che l’Asia e il Sudamerica guidato dal Brasile possano trasformarsi oggi nella locomotiva del pianeta: le dimensioni delle economie cinese ed indiana ancora non lo consentono, mentre la trasformazione del paese del Sol Levante da esportatore in consumatore, prevista dal programma del Partito Democratico, appare destinata a infrangersi contro una realtà fatta di invecchiamento della popolazione e crisi fiscale.
Ma una tendenza sembra sempre più affermarsi: il baricentro della crescita globale sta lentamente ma inesorabilmente spostandosi sempre più verso l’Est ed il Sud del pianeta. Nei prossimi anni il Nord-Ovest dovrà compiere una profonda (e dolorosa) riflessione sul proprio futuro e sulla propria organizzazione sociale.
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