Setting the record straight: Restare, andare o cambiare in Afghanistan

di Andrea Gilli

Vista l’imbarazzante quantità di banalità che si leggono e si sentono sull’Afghanistan, tiriamo brevemente le somme di cosa bisogna fare.

Punto primo, in Afghanistan i talebani, al-Qaeda e altri piccoli gruppi combattono la ricostruzione del Paese. Per restare bisogna combattere. Tutte le idee sul contingente civile sono ridicole (Pino Arlacchi), perché senza sicurezza non si può fare alcuna ricostruzione.

Punto secondo, senza lo sforzo civile, però, la ricostruzione non può allo stesso modo avere successo. Ciò perché il consenso dei talebani e di al-Qaeda deriva principalmente dalla poor governance del Paese. Maggiore è la corruzione, l’assenza di servizi di base e la violenza privata ad opera dei warlords, maggiore è il supporto che gli insurgents riescono ad ottenere tra la popolazione. Il supporto può essere diretto (combattenti) o indiretto (non-cooperazione con le autorità, illegalità, etc.). E ciò ovviamente dirotta tutti i nostri sforzi.

Punto terzo, finora lo sforzo civile è stato minimo e spesso errato. In particolare, la ricostruzione politica si è basata sul consenso dei warlords. Ciò ha indebolito il governo centrale, e quindi di conseguenza la stessa ricostruzione. Per cambiare rotta, è certo necessario continuare a dare la caccia agli insorti ma è anche necessario rafforzare l’autorità centrale del governo. Ciò significa fornire servizi di base, assicurare la legalità e, soprattutto rafforzare la polizia, prima ancora dell’esercito.

Punto quarto, l’opinione pubblica italiana è certamente allo sbando. E la cosa è comprensibile. E’ da sette anni che sentiamo dire che, se ce ne andiamo, l’Afghanistan va a rotoli. Siamo rimasti, ma l’Afghanistan è andato a rotoli lo stesso. Il problema, in questo caso, riguarda il nostro rapporto con la NATO e in particolare con gli Stati Uniti. Per il futuro, è quanto mai necessario che la nostra partecipazione avvenga a condizione di influire sulla strategia generale. Se non c’è condivisione sulla strategia, allora stiamo a casa. Dispiace dirlo, ma politici non certo avveduti e competenti quali Piero Fassino hanno spesso chiesto un dialogo con i talebani per favorire la ricostruzione del Paese. Al tempo, venivano ridicolizzati. Dopo diversi anni, quanto loro (e tutte le persone di buon senso – Epistemes inclusa) chiedevano, diventa la politica americana. Abbiamo perso almeno quattro anni.

Punto quinto, il numero di soldati di stanza in Afghanistan è insufficiente. Mandare più truppe non significa risolvere il problema dell’insicurezza. Ma al momento, a seconda delle stime, ci vorrebbero almeno 300.000 soldati nel Paese. Ve ne sono invece poco più di 150.000. L’aumento quantitativo, però, deve essere accompagnato da un aumento qualitativo. Senza il secondo, il primo è inutile.

Ciò significa riproporre, broadly speaking, la surge di Petraeus in Afghanistan. Come abbiamo già detto, la situazione afghana è diversa e molto più complicata di quella irachena. La scelta politica, a questo punto, riguarda la fattibilità e l’applicabilità di una strategia tipo surge all’Afghanistan. Per capirci, l’implicazione è mandare tanti soldati, e vederne cadere molti. Se siamo pronti, restiamo e mandiamone altri.


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