Tagliamo la spesa improduttiva e riduciamo la pressione fiscale sul lavoro
di Mario Seminerio (articolo pubblicato in contemporanea da Libertiamo.it e FFWebMagazine.it)
Da qualche tempo si susseguono segnali contraddittori sulla evoluzione della crisi economica globale. Vi sono infatti segni di rallentamento nella velocità di caduta dei livelli di attività, e i modelli econometrici segnalano per l’autunno la stabilizzazione della congiuntura. Paesi come la Cina mostrano un recupero apparentemente vibrante, almeno a leggere i dati di Pil pubblicati dall’istituto statistico nazionale, ammesso che si tratti di dati veritieri e metodologicamente robusti.
La Cina, e l’Asia in generale sono ormai divenute la speranza di tutto l’Occidente: si spera cioè che i paesi di quest’area possano stimolare con successo la propria domanda interna e invertire il flusso di domanda che negli ultimi dieci anni ha retto i destini economici del pianeta, con gli Stati Uniti grandi consumatori e i paesi quali Cina, Giappone e Germania grandi venditori. Con il Giappone frenato dall’invecchiamento demografico e la Germania che non intende cambiare nulla del proprio modello di crescita trainata dalle esportazioni, solo una Cina che stimoli la propria domanda interna, e di conseguenza importi di più, potrà tenere acceso il motore dell’economia mondiale, mentre il consumatore americano è impegnato nella traversata del deserto della riduzione dei propri debiti, attraverso maggiore risparmio. Questa transizione non sarà breve, e porterà a tutti i paesi sviluppati un carico di maggiore deficit, debito e disoccupazione. Il nostro paese si muove in questo scenario con la limitatezza di mezzi e strumenti caratteristica di un paese in crisi fiscale, e non potrebbe essere altrimenti, visto lo stock di debito che ci portiamo dietro da lustri. Non ci sono risorse fiscali per rilanciare la crescita nel modo keynesiano a cui gli Stati Uniti stanno massicciamente facendo ricorso oggi. L’Italia ha già avuto la propria lunga stagione di spesa pubblica fuori controllo, formatasi in circostanze assai meno drammatiche di quelle che oggi l’America sta affrontando, ed i risultati sono oggi (e saranno domani) sotto i nostri occhi.
Che fare, quindi? Come ha recentemente scritto l’economista statunitense Kenneth Rogoff, l’Europa deve recuperare crescita di lungo termine non con politiche fiscali espansive bensì attraverso riforme strutturali quali un mercato del lavoro flessibile, un mercato finanziario pan-europeo e la continua apertura del commercio estero. Solo così, quando la crescita ripartirà, sarà possibile cogliere un vigoroso rimbalzo che metta al contempo ordine nei conti pubblici. Per il nostro paese questa esigenza di riforme strutturali (del mercato del lavoro, dei servizi pubblici locali, del mercato delle professioni, del sistema previdenziale) è massimamente valida. Ma il governo ha congelato l’agenda delle liberalizzazioni, che sono la chiave di volta per innescare un aumento strutturale della crescita, potenziale ed effettiva. Le “prediche inutili” del presidente dell’Antitrust testimoniano dell’assenza di un’agenda strategica per spezzare il dominio degli incumbent in settori critici per la crescita di lungo termine del paese, o più propriamente di un disegno restauratore delle rendite di posizione che parassitano le energie vitali del paese.
Con un mercato del lavoro ancora fortemente duale, la precarietà è destinata a pagare un conto pesantissimo alla crisi, e a portare sulle proprie spalle quasi tutto il peso dell’aggiustamento. Un paese che liberalizza contribuisce ad aumentare la produttività totale dei fattori, e quindi ad innalzare strutturalmente la crescita economica, reperendo in tal modo risorse per un welfare realmente universalistico ed inclusivo. Un paese che mira solo a congelare lo status quo è condannato al declino, ed a raggiungere rapidamente condizioni di crisi sociale profonda. Per questo motivo le tattiche dilatorie mirate ad attendere che il mondo riparta e ci porti con sé sono garanzia di un aggravamento della nostra crisi di struttura.
Vi è poi anche una problematica molto rilevante relativa alla gestione dello stock di debito pubblico. Secondo il Fondo Monetario Internazionale (e si tratta quasi certamente di stime per difetto), in Germania il debito pubblico si attesterà nel 2010 all’87 per cento, con un aumento di 19 punti percentuali. In Giappone l’incremento sarà di 30 punti percentuali, al 227 per cento, mentre negli Usa il balzo sarà di 27 punti, al 98 per cento. In Francia, l’aumento sarà di 13 punti percentuali, all’80 per cento. L’Italia veleggerà comunque verso il 120 per cento del Pil. Nell’ultimo Dpef, il governo segnala che la somma di debito pubblico e passività delle famiglie ci mette in condizioni migliori o uguali a quelle dei paesi con i quali ci confrontiamo. Ma il documento non conteggia l’onere del debito pensionistico, il cui valore attuale è oggi stimato intorno al 120-140 per cento del Pil dopo che, durante l’emergenza fiscale di inizio anni Novanta, era stimato dalla Banca d’Italia pari al 300 per cento del Pil. Già oggi l’Italia ha un esborso previdenziale annuale pari a circa il 15 per cento del Pil. Un livello di spesa superiore a quello medio degli altri paesi europei. Per il Regno Unito, che pure sta vivendo una crisi drammatica, tale voce di spesa si situa intorno al 5-6 per cento del Pil.
Il nostro paese ha poi una seria vulnerabilità: come noto, il rapporto debito-Pil si autoalimenta ogni volta che il tasso reale pagato sullo stock di debito eccede il tasso di crescita reale dell’economia. Con una crescita del Pil che negli ultimi anni è rimasta prossima a zero, solo il conseguimento di ampi avanzi primari, frutto in prevalenza di aumento della pressione fiscale, ci ha permesso di stabilizzare e piegare il rapporto debito-Pil. In più, e ciò che è peggio, in questo momento ci troviamo in un ambiente certamente disinflazionistico e potenzialmente deflazionistico, e poiché lo stock di debito non paga tassi nominali negativi, il tasso reale sul debito rischia di crescere in modo significativo, e con esso il rapporto debito-Pil. Per questo motivo occorre fare l’impossibile per liberare la crescita del paese con terapie d’urto, portandola a superare il tasso d’interesse reale pagato sul debito, che è (lo ricordiamo) determinato dal tasso d’interesse reale “globale” maggiorato di un premio al rischio specifico per il paese, funzione della percezione di sostenibilità del debito e delle prospettive di crescita.
Se al momento della ripresa l’Italia non riuscirà quindi a crescere in modo sostenuto e costante, il rischio è quello di entrare in una traiettoria esplosiva del rapporto debito-Pil, a cui potrebbe contribuire una crisi di fiducia degli investitori esteri nel nostro debito, posseduto per oltre la metà da non residenti.
In sintesi, una crisi epocale come l’attuale può essere affrontata solo liberando la crescita e tagliando la spesa improduttiva per ridurre soprattutto la ormai patologica pressione fiscale sul lavoro, che ci vede al primo posto in Europa, retaggio di un modello di welfare ormai fallito.
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