di Andrea Gilli
Dopo diversi giorni di scontri, violenze, dichiarazioni e ultimatum, è ancora presto per fare un bilancio di quanto sta accadendo in Iran. Possiamo, però, sottolineare i dati che sono emersi, e quelli che non sono emersi, nell’ultima settimana e provare a valutarli.
Abbiamo visto i brogli. Più o meno ufficialmente questi sono stati ammessi dallo stesso regime. Rimane ancora da vedere, però, la loro reale entità. Alcuni sia in Iran che in Occidente, ritengono che Moussavi avrebbe battuto Ahmadinejad di misura. Altri, invece, ritengono che Moussavi avrebbe verosimilmente avuto più voti, ma le elezioni sarebbero comunque state vinte da Ahmadinejad. I brogli, più che per far vincere il cavallo preferito dal regime, sarebbero serviti per accreditarlo e legittimarlo maggiormente.
Ovviamente quale delle due interpretazioni sia vera non è possibile dirlo. Un dato è però certo. Abbiamo visto scendere in piazza migliaia, probabilmente centinaia di migliaia di persone. Non milioni. Non decine di milioni. Se Moussavi avesse sconfitto Ahmadinejad in maniera devastante, verosimilmente avremmo visto molte, molte più persone in piazza, e soprattutto non solo a Tehran. Avremmo visto disobbedienza civile anche nelle campagne e nelle infrastrutture del Paese.
Allo stesso modo, tra i manifestanti abbiamo visto giovani e classe media. Non abbiamo visto appartenenti alle classi più povere, fondamentalisti religiosi, popolazioni rurali, e quant’altro. Ciò può dire qualcosa sul voto. Ma può anche, nell’ipotesi che i brogli siano stati enormi, significare semplicemente che a voler rischiare la pelle per il regime sia comunque una minoranza dei sostenitori di Moussavi.
Ciò ci porta ad una terza considerazione. Come illustrò Theda Skopcol, nel suo celeberrimo States and Social Revolutions, un attore determinante nelle rivoluzioni sociali è “l’apparato statale”, o più semplicemente “lo stato”, per via del suo monopolio dell’uso della forza. Finora, le forze armate, dai pasdaran ai basij, dalla polizia all’esercito, sono rimaste fedeli al regime. Fino a quando il malcontento sociale non si diffonderà anche tra le forze armate, influenzandone l’orientamento, le chances di successo della rivoluzione saranno pressochè nulle. Khomeini riuscì a ribaltare lo shah proprio perchè l’esercito si schierò dalla sua parte. Finora ciò non sembra essere successo.
Se nel breve termine significa che le proteste verranno schiacciate nel sangue, in una prospettiva di più lungo periodo, il significato di questo dato è diverso. Tutto ciò implica che il regime è in grado a mantenere una sua base di consenso. Una base forte e compatta.
Sappiamo che l’Iran, e in particolare la sua economia, si basa su una serie di entità a metà tra il pubblico e privato spesso controllate proprio dai vertici delle forze armate. Di sicuro questa è una delle tante vie attraverso le quali il regime è in grado di mantenere consenso e sostegno.
Queste considerazioni, infine, ci portano a riflettere su altri due elementi. Il primo riguarda Moussavi e, in secondo piano, Rafsanjanì. Come mai due figure centrali dell’establishment iraniano (uno era il primo ministro sotto Khomeini, e l’altro il Presidente della Parlamento nei primi anni della Rivoluzione) si sono schierate chiaramente e duramente contro Ahmadinejad e poi Khamenei? Forse la risposta la si può trovare proprio nei meccanismi attraverso il quale il regime foraggia il proprio sostegno tra la popolazione. Questa spaccatura suggerisce la rottura di alcuni equilibri tra i principali attori, probabilmente causata proprio da azioni che avrebbero leso gli interessi dei sostenitori di Rafsanjanì e di Moussavi.
Questa interpretazione è particolarmente interessante, soprattutto per via della sua implicazione principale. Moussavi, più che un riformista, un democratico o addirittura un nuovo Gorbachev (come alcuni lo avrebbero definito), sarebbe in realtà una pedina che il regime non ha più ritenuto di dover sostenere. Il suo disappunto, e le sue rimostranze, più che essere volte alla transizione democratica, sarebbero dunque intese a riportare lo status quo ex-ante nel Paese.
A sostegno di questa interpretazione vi è un dato abbastanza interessante. I manifestanti che abbiamo visto in questi giorni erano, in molti casi, giovani, studenti, portatori di vere aspirazioni di libertà. In molti casi, però, le loro aspirazioni sembravano nettamente diverse. Il verde è assurto a colore della protesta. Verde è il colore dell’Islam. I cori intonavano Allah u Akhbar, Allah è Grande. La figlia di Rafsanjanì, il sopra citato ex-Presidente del Parlamento (e Presidente nei primi anni Novanta), è stata arrestata mentre partecipava alle manifestazioni. Rafsanjanì è uno degli uomini più ricchi del Paese, con proprietà economiche che spaziano in tutti i settori produttivi.
E’ ancora presto per far previsioni. Ma forse, anche in questo caso, stiamo leggendo i fatti iraniani con le lenti che ci permettono di leggere l’Occidente. L’Iran non è in Occidente.
Se i dati sui quali abbiamo ragionato sono corretti. E la nostra interpretazione è solida. Allora possiamo fare due previsioni. La violenza porrà fine alle proteste. E il regime resterà in piedi. Ne consegue che quelle che vediamo non sono manifestazioni per la libertà, ma semplicemente proteste volte a ripristinare un equilibrio interno tra le varie fazioni politiche. La domanda importante è come e quale sarà il nuovo equilibrio che il Paese si darà dopo questi avvenimenti. Da esso dipende il futuro dell’Iran, il suo sviluppo e soprattutto la sua politica estera.
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