di Andrea Gilli
Il rapporto tra Stato e Liberalismo è sempre stato complesso. Il Liberalismo nasce come ideologia volta a depotenziare le tentazioni autoritarie dello Stato. Non stupisce dunque che, analiticamente, ancora prima che normativamente, il Liberalismo tradisca una certa diffidenza verso il ruolo dello Stato nella società e nell’economia. Di tanto in tanto, però, questa tensione, riassumibile nella dicotomia sicurezza contro libertà, ha delle accelerazioni infelici. Piero Ostellino, in un recente editoriale sul Corriere della Sera, offre proprio una di queste infelici accelerazioni. Prima di analizzarla, conviene innanzitutto concentrasi sull’evoluzione storica dello Stato e del Mercato.
Lo Stato moderno nasce in Europa, a partire dal 1500, dove si sviluppa prima in Spagna e in Francia, poi in Inghilterra e in Olanda, e infine prende forma nel resto del Continente – per ultimo in Italia e in Germania (aspetto quest’ultimo che, come vedremo in seguito, non è da sottovalutare).
Sotto tutti i punti di vista, lo Stato Moderno è, storicamente, la più efficace forma di organizzazione politica. Esso ha infatti difeso i suoi cittadini dalle minacce esterne, garantendo allo stesso tempo la sicurezza interna. In altre parole, lo Stato Moderno è stato in grado di creare e mantenere, in maniera continuata e continuativa, un apparato di sicurezza (l’esercito) in grado di proteggere il proprio territorio e il proprio popolo dalle invasioni esterne. In questo modo, ha vanificato i tentativi di razziare produzioni e raccolti da parte di altri attori, dando così un fortissimo incentivo all’investimento produttivo. Infine, come accennato, è stato in grado di mantenere ordine all’interno dei suoi confini, assumendo il monopolio sul controllo della forza. Ciò ha permesso, tra le altre cose, la costituzione e il rispetto di un apparato legale efficace e rispettato (dal quale la proprietà privata non fa eccezione) che, a sua volta, ha gettato le basi per la crescita economica, politica e sociale dell’Europa Occidentale prima, e degli Stati Uniti poi.
Molti degli elementi che ancora oggi caratterizzano la nostra vita quotidiana sono una diretta conseguenza della nascita dello Stato moderno: in primo luogo la nostra ricchezza e la democrazia. La democrazia è stata possibile solo e soltanto all’interno degli Stati. Come anche la crescita economica, che si è manifestata in maniera continuata e massiccia solo sotto l’egida della protezione statale.
Lo Stato aveva bisogno di risorse per gestire la sua macchina amministrativa, e in particolare per poter disporre di un esercito all’altezza di quelli nemici. Queste risorse potevano derivare solo dalla tassazione. Una tassazione troppo alta avrebbe compresso gli investimenti, e quindi il gettito futuro. Una tassazione ridotta non avrebbe prodotto risorse in quantità adeguate. La soluzione trovata consistette nel laissez faire – lasciar fare ai privati, che in cambio della protezione ricevuta, si impegnavano a pagare un somma dei loro ricavi al sovrano. Così l’Inghilterra, prima, e poi i Paesi Bassi e la Francia gettarono le basi per il loro sviluppo economico.
La democrazia fu la logica conseguenza di questo processo – che, in fin dei conti, non è altro che la soluzione trovata per risolvere la tensione prima ricordata tra libertà e sicurezza. Arricchendosi, le classi borghesi iniziarono a reclamare un maggiore ruolo nella sfera pubblica. Avevano bisogno dello Stato per difendere le loro proprietà tanto dagli attacchi stranieri che dai conflitti sociali interni. Allo stesso tempo, esse volevano anche la massima libertà possibile in campo economico, e una tassazione non vessatoria. Il risultato fu la nascita della democrazia constituzionale.
Il Liberalismo, come i più attenti avranno notato, si sviluppò all’interno di questo dibattito, dal lato opposto dello Stato. Abbiamo già ricordato che non deve dunque sorprendere se la sua attenzione analitica e normativa per il ruolo dell’apparato statale sia sempre stata caratterizzata da una certa diffidenza. Compito del liberale non ideologico dovrebbe essere però quello di riconoscere, e accettare questi limiti della propria dottrina.
Non ci sembra che Piero Ostellino, già direttore e attuale editorialista del Corriere della Sera, sia andato in questa direzione. Nel suo ultimo articolo, infatti, la furia anti-statale non solo porta l’autore a perdere di vista quelli che sono i meriti dello Stato (oltre a quelli ricordati, sarebbe il caso di menzionare anche lo stesso Liberalismo, che non sarebbe mai esistito se lo Stato moderno non si fosse sviluppato), ma addirittura lo accompagna a degenerazioni dal vago sapore razzista che, per gentilezza, preferiamo identificare come “non-falsificabili”.
Secondo Ostellino, infatti, il disastrato rapporto tra Stato e Mercato, tra sicurezza e libertà, che caratterizza l’Italia sarebbe dovuto, da una parte, allo “Stato canaglia” e, dall’altra, alla cultura parassitaria che accompagna la stragrande maggioranza dei nostri cittadini.
Per Stato canaglia Ostellino intende, verosimilmente, la vorace attitudine del nostro apparato statale ad inglobare ogni tipo di attività economica, culturale, politica. Nel merito dell’articolo in questione, si parla di RAI. Per cultura parassitaria, invece, Ostellino intende l’approccio passivo degli italiani che preferirebbero uno Stato invasivo, nel quale le loro responsabilità, come anche le loro libertà, siano minori, invece di uno Stato più snello, più efficace ma nel quale il loro ruolo sociale, civile e politico sia maggiore.
E’ singolare che Ostellino, dai più considerato uno dei maggiori rappresentanti del Liberalismo classico nel nostro Paese, si abbandoni poi in spiesgazioni che, per un liberale come Popper, sarebbero frutto di ragionamenti capziosi e viziati, se non di ambigue contorsioni mentali.
I problemi della spiegazioni offerta da Ostellino sono sostanzialmente due: non fansificabilità ed endogeneità. La sua trattazione della variabile cultura non è assolutamente convincente, sotto più punti di vista, senza contare che offre una spiegazione non falsificabile. In secondo luogo, egli rileva due variabili indipendenti per una sola spiegazione: lo Stato canaglia e la cultura parassitaria. Metodologicamente, questo è già un errore, in quanto non considera come esse siano correlate, e quindi come una sia il prodotto dell’altra.
Innanzitutto, identificando la cultura parassitaria degli italiani come causa della disastrata situazione politica e sociale del nostro Paese, Ostellino sembra trovare una ragione genetica e biologica ai problemi che affliggono la Penisola. Dette teorie andavano di moda un secolo fa – ora sono state abbandonate, anche per via del loro forte connotato razzista. Questa cultura parassitaria – dice l’editorialista del Corriere – caratterizza solo gli Italiani. E’ logico chiedersi da quando ciò sia vero. La risposta più logica e coerente dovrebbe essere “da sempre”, perchè, altrimenti, ci dovrebbe essere qualche fattore che ha portato allo sviluppo di questa cultura. Ma su questo punto torniamo in seguito.
In secondo luogo, affermando che detta cultura caratterizzerebbe la grande maggioranza degli italiani, Ostellino cade nell’infalsaficabilità. La sua teoria non può essere smentita: un Del Vecchio che vince nei mercati internazionali o un ricercatore che va a specializzarsi in America sarebbero un chiaro esempio di una cultura non parassitaria. Tutti gli altri italiani, invece, sarebbero guidati da una cultura della rendita. In qualunque situazione, la teoria è sempre valida, perchè la si può sempre adattare strumentalmente a qualsiasi caso. E una teoria che è sempre valida, non è mai corretta. Popper dixit.
In terzo luogo, vi è una chiara contraddizione metodologica nel ragionamento di Ostellino. La cultura può ovviamente essere elevata a spiegazione delle azioni individuali. Nelle scienze sociali, tutto il filone riflettivista (o culturalista e costruttiviste), guarda infatti al ruolo indipendente della cultura per spiegare il comportamento degli individui. Farlo è assolutamente legittimo. Un po’ meno, lo è da parte di chi dichiara di affidarsi unicamente all’invidualismo metodologico come paradigma per leggere la realtà sociale. La cultura, in quanto fattore condiviso, può essere solo esaminata da una prospettiva olistica – a meno, ovviamente, di pensare che gli italiani sviluppino endogeneamente e individuamente nel loro cervello una cultura che, verosimilmente per ragioni genetiche, tenderebbe ad essere uniforme. Che Ostellino usi dunque la cultura per spiegare il caso italiano e poi, quasi contemporaneamente, dica che, salvo l’invidualismo metodologico, tutti gli altri paradigmi avrebbero dei tratti autoritari ha un vago sapore ridicolo – oltre che contraddittorio:
Ritengo anch’io che l’individualismo metodologico sia la sola metodologia della conoscenza corretta, in quanto, per dirla con Popper, empiricamente verificabile alla prova della realtà effettuale. La divisione dell’Italia in due — l’Italia (al plurale) dei singoli individui, ciascuno dei quali pensa e agisce sulla base delle proprie personali convinzioni; e l’Italia (al singolare), come soggetto collettivo, autoreferenziale, che li (mal)governa sulla base di principi e leggi che essa stessa si è data — è, dunque, solamente un artificio retorico. (Piero Ostellino, Corriere della Sera, 4 marzo 2009).
Il secondo problema riguarda il rapporto tra cultura parassitario e stato canaglia. Sempre per fare i puristi della metodologia, è chiaro come il sole che il problema della teoria di Ostellino è di endogeneità. La (presunta) cultura parassitaria è il prodotto di quello che Ostellino chiama Stato canaglia. Quindi Ostellino scambia per causa quella che in realtà è una conseguenza. La domanda, a questo punto, è semplice: ma questo Stato canaglia può spiegare la situazione italiana e la sua cultura parassitaria?
Anche in questo caso, la risposta è no. La variabile identificata (lo Stato canaglia) da Ostellino non è infatti una variabile, ma semplicemente il prodotto di un altro processo che la sua analisi non coglie. Vediamo più nel dettaglio.
Il problema dell’Italia è di natura storica, e riguarda in particolare il parziale sviluppo dell’apparato statale – fatto che non dovrebbe sorprendere visto che, come abbiano ricordato, lo Stato unitario, in Italia, si è sviluppato con netto ritardo rispetto al resto d’Europa. L’ordinamento giuridico è stato spesso inapplicabile e inapplicato, se non inadatto, l’ordine e la legalità non mantenuti – semplicemente perchè mancava una cultura della legalità, senza contare l’assenza di personale preparato per applicare le norme varate. In Inghilterra, lo Stato e la classe produttiva hanno siglato un accordo sul livello di servizi e di tassazione. In Italia è avvenuto l’opposto: in cambio di ampia illegalità (inclusa l’evasione fiscale) sono stati concessi servizi ridotti.
Due domande sorgono spontanee. Una riguarda la ragione di questa scelta. La seconda riguarda il caso tedesco, che dovrebbe contraddire la nostra interpretazione.
La ragione del ritardato sviluppo statuale è doppia. In primo luogo, la lunga dominazione straniera, unita alle forti conflittualità interne, ha prodotto debolissime strutture sociali. Non è difficile capire che laddove vi sia un più debole senso di comunità, e soprattutto un tenue legame con l’apparato statale, l’amministrazione (in Italia già debole per le ragioni già ricordate, incluse il tardo sviluppo, l’assenza di una burocrazia capace, etc.) abbia trovato ulteriori ostacoli alla sua azione. Il Sud Italia, in particolare, è stato vessato e mantenuto in una situazione parafeudale per secoli dalla Spagna. Non stupisce che i Paesi soggetti a simili dominazione (soprattutto spagnola) soffrano tutt’ora problemi analoghi ai nostri: basta guardare al Sud America per capire di cosa parliamo. Dall’altra parte, le esigenze politiche unitarie, prima, e della Guerra Fredda, dopo, hanno fatto il resto. In breve, per vincere le elezioni nazionali era necessario allearsi con chi poteva vincere nelle varie regioni italiane: ciò significava anche allearsi con chi, anzichè favorire lo sviluppo, avrebbe mantenuto lo status quo.
Il caso tedesco, dall’altra parte, conferma proprio quanto detto sulle strtture sociali. Il livello di efficacia di un apparato statale, in guerra, nell’amminstrazione, nella raccolta dei tributi, dipende dalla coesione interna ad un Paese. Robert Putnam ha evidenziato questi elementi studiando un Paese che soffre proprio di questi problemi. Quel Paese si chiama Italia. Non è difficile comprendere che in un Paese con scarsa coesione sociale, i compiti dello Stato siano più complicati, e la sua efficacia minore. E le strutture sociali dipendono non dai geni di una data popolazione, ma semplicemente dalle evoluzioni storico, politico e culturali di un Paese. Ripetiamo: difficilmente le strutture sociali di un Paese possono essere robuste quando per secoli è stato dominato da Paesi stranieri (Austria, Francia e Spagna) e dove le rivalità interne sono state massime.
Criticare lo Stato, in definitiva, per le sue interferenze nella libertà dei cittadini o per quelle nell’economia di mercato (con le loro conseguenze negative in termini di efficienza economica) è assolutamente legittimo, purchè ci si ricordi sempre che senza Stato, non ci sarebbe però nè libertà nè crescita economica.
Il problema della situazione italiana ha ragioni strutturali e storiche, sulle quali i singoli individui, nel breve periodo, hanno ben poca influenza. Per risolvere detti problemi, in ogni caso, bisogna innanzitutto identificare le loro cause effettive. Solo affrontandole, la situazione italiana potrà migliorare. Difficilmente ciò potrà accadere lanciando strali vaghi e vani.
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