di Mario Seminerio – ©LiberoMercato
E’ di questi giorni la notizia che un consorzio delle principali banche russe sta contattando i creditori occidentali per proporre una rinegoziazione dei termini dei finanziamenti in essere. L’iniziativa deriva dalla vera e propria emergenza sulle riserve in valute forti che la Russia sta affrontando. Quest’anno, banche ed imprese russe dovranno infatti rimborsare o rinnovare debiti in valuta estera per 117 miliardi di dollari, ma le riserve ufficiali del paese stanno inesorabilmente prosciugandosi a causa dell’effetto congiunto del rimpatrio di capitali esteri, e del debole andamento delle quotazioni del greggio, che impedisce al paese di ricostituire le proprie scorte valutarie. A ciò si aggiunge la gestione del cambio finora adottata dalle autorità russe, che hanno dilapidato riserve nel futile tentativo di frenare il deprezzamento del rublo. Mosca ha già iniziato a concedere prestiti a società pericolanti, dietro pegno di azioni che porteranno entro breve tempo alla nazionalizzazione di interi settori dell’economia. Ma anche così il sistema appare già insolvente rispetto ai creditori internazionali, rappresentati in larga misura da banche europee.
E qui risiede il prossimo grande rischio per l’economia del nostro continente, oltre che per quella globale: la crisi dell’Est Europa, che si aggrava ogni giorno di più, e rischia di travolgere non solo le banche del continente, ma anche alcuni governi nazionali. La situazione più seria è quella austriaca, il cui sistema bancario ha prestato 230 miliardi di euro ai paesi del blocco ex sovietico, una cifra pari al 70 per cento del Pil nazionale. Eventuali insolvenze anche solo per un decimo di tale importo finirebbero col distruggere il sistema finanziario austriaco, e il governo di Vienna ha già mandato inequivocabili segnali all’Unione Europea (e, soprattutto, alla Germania) per ottenere sostegno. Il governo di Berlino ha già informalmente fatto sapere di considerare questo un problema austriaco. Salvo poi essere costretto a ricredersi quando, a breve, apparirà drammaticamente chiaro che questo è un evento sistemico continentale dalla portata ancora più devastante della crisi delle cartolarizzazioni tossiche.
L’insieme dei paesi dell’Est ha in scadenza, nel 2009, debiti verso banche estere per circa 400 miliardi di euro (pari ad un terzo del Pil della regione), che sono parte di un indebitamento complessivo stimato pari a 1700 miliardi di euro, in prevalenza a breve termine o a tasso variabile. Sono anche il frutto della corsa al mutuo denominato in euro da parte di paesi che stavano per convergere alla moneta unica, ma si portavano dietro rilevanti ed irrisolti squilibri macroeconomici e demografici, che hanno finito col fare esplodere i consumi e l’indebitamento in valute forti in presenza di tassi reali negativi e salari reali in forte crescita. Oggi il problema principale è quello di chiudere il deficit delle partite correnti senza causare catene di fallimenti (di imprese e banche) e disoccupazione di massa. In un momento in cui il credito è imploso e ripiegato per linee nazionali, questi paesi hanno insufficiente risparmio domestico e si trovano ad affrontare un aggiustamento brutale.
Poiché ogni grande debitore trascina con sé anche i propri creditori, il problema è destinato a ricadere sulle banche europee, già coinvolte nelle cartolarizzazioni americane ma con l’aggravante di essere dotate di un grado di leva finanziaria che, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, è fino al 50 per cento superiore a quello delle banche statunitensi. Quello che è davvero sorprendente (o sconcertante) è che gli europei contino per circa i tre quarti dell’intero portafoglio di crediti erogati ai paesi emergenti, stimati pari a 4900 miliardi di dollari. Non a caso i principali banchieri dell’Unione europea hanno sollecitato le istituzioni comunitarie a prendere in considerazione la creazione di facilities creditizie anche per i paesi dell’Est Europa. Ma le risorse fiscali scarseggiano, soprattutto in assenza di strutture sovranazionali che gestiscano l’emergenza, e con le autorità nazionali che stanno ordinando alle proprie banche di concentrare gli sforzi creditizi all’interno dei rispettivi paesi. E’ l’ennesimo aspetto del credit crunch, quello che ripercorre a ritroso il sentiero della globalizzazione dei flussi creditizi. E l’Europa è costretta ad affrontare questo tsunami con un’architettura istituzionale ampiamente incompiuta.
Resta la possibilità, a lungo dibattuta, di una riforma che potenzi ruolo, risorse e raggio d’azione del Fondo Monetario Internazionale. Istituzione “occidentale” per antonomasia, controllata da americani ed europei, frutto di un’era storica in cui i paesi emergenti avevano un peso del tutto trascurabile su economia e commercio mondiali. La stessa dotazione di risorse del FMI è cresciuta in questi ultimi lustri molto meno dell’economia globale. Le linee di intervento per rilanciare l’istituzione sovranazionale sono note da tempo: identificare le tipologie di salvataggio ammissibile, discriminando tra condotte spericolate dei singoli paesi ed eventi negativi ad essi esterni; riformare il sistema di seggi e quote dei paesi finanziatori, aumentando il peso dei paesi asiatici; da ultimo, e per effetto delle precedenti priorità, procedere ad una forte ricapitalizzazione del Fondo. Per questa via, ad esempio, la Cina potrebbe trovare nuova legittimazione internazionale. E’ comprensibile la resistenza degli americani, che rischiano di vedersi scippare uno dei principali strumenti attraverso i quali hanno esercitato per decenni la propria egemonia geopolitica, ma allo stato attuale sembra non esistano alternative per tentare di puntellare un sistema economico mondiale che sta dando paurosi segni di cedimento. O meglio, l’alternativa è quella di negoziati bilaterali dei cinesi con i paesi per essi più “promettenti”, come fornitori di materie prime o mercati di sbocco. L’esito non cambierebbe: sarebbe solo la certificazione dell’indebolimento della leadership americana, ma farlo con una concertazione multilaterale è certamente meno traumatico rispetto all’affermazione di tendenze spontanee che sono per loro natura disgregatrici.
Nel frattempo gli europei dovranno pensare a cosa fare per evitare che il crollo dell’Est assesti un colpo esiziale alla costruzione unitaria. Ma sappiamo già sin d’ora che non sarà possibile salvare tutto e tutti.
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