di Andrea Gilli
Pino Arlacchi, ex-vice segretario dell’ONU, ha recentemente scritto un volume, al quale il Corriere della Sera ha dato un notevole risalto. L’inganno e la paura, questo il titolo del testo, si pone due obiettivi. Svelerebbe innanzitutto, sulla base di semplici dati, come non ci sia ragione di credere che il mondo sia insicuro e, in secondo luogo, che una fabbrica della menzogna lavorerebbe accanitamente per diffondere paure e insicurezze nella società. In altre parole, mentre il mondo sarebbe un luogo calmo e pacifico, il senso di insicurezza che ci porta a spendere in armamenti e a temere per il futuro sarebbe dovuto da una cospirazione mondiale.
Purtroppo il testo di Arlacchi è viziato da serie incongruenze logiche e metodologiche, oltrechè fattuali. In questo articolo ci proponiamo di demistificarle, così come le conclusioni a cui giunge.
Il testo di Arlacchi si compone fondamentalmente di tre sezioni. Una prima nella quale si riportano alcuni dati sulla politica internazionale. Una seconda, inclusa nella prima, nella quale si traggono alcune conclusioni da questi dati. E una finale che offrirebbe una spiegazioni ai dati dal quale l’autore è partito. La tesi del volume è semplice: mentre il mondo è sempre più pacifico, le società contemporanee continuano ad essere tormentate da paure e fobie. Secondo Arlacchi, la ragione si troverebbe negli interessi di un’industria della paura che profitterebbe dal generare terrore e incertezza.
In God We Trust – All the Others Must Bring Data (W. Edwards Deming)
Arlacchi parte dai dati per sostenere la sua tesi. E i dati che cita sono incontrovertibili. Il mondo di oggi è più pacifico, più sicuro, più democratico di quello di cinquant’anni fa, con un trend positivo particolarmente importante a partire dal 1989, l’anno della caduta del Muro di Berlino. Non solo, continua Arlacchi, il numero di vittime nei conflitti è anche in calo, e così il numero di conflitti in generale. Parallelamente, ricchezza, speranza alla vita, benessere sono in crescita.
A questi dati, se ne sommano ancora altri: il numero di conflitti risolti attraverso negoziato sarebbe pari al 92,5%, contro il 7,5% dei conflitti risolti da guerre, il numero delle vittime del terrorismo sarebbe in costante calo, etc. etc.
Dunque, si chiede Arlacchi: come mai continuiamo a parlare di caos globale, di insicurezza, di rischi, quando questi elementi starebbero lentamente eclissandosi nel panorama mondiale? Prima di addentrarci nella sua risposta, analizziamo innanzitutto i dati forniti.
I dati di Arlacchi sono per la maggior parte corretti. Il problema deriva, prima dall’interpretazione che se ne offre, e poi dalla loro parzialità. Nella prossima sezione guardiamo a come Arlacchi interpreti questi dati. Qui conviene concentrarci sui problemi che essi presentano.
I dati che Arlacchi porta non sono nè nuovi nè nascosti. Studiosi come Samuel P. Huntington hanno evidenziato il fenomeno dell’espansione della democrazia, studiosi quali Holtsi o Kaldor hanno sottolineato il declino del numero delle guerre convenzionali. Gli studiosi di storia economica hanno evidenziato la crescita del benessere e della ricchezza. Dunque la prima parte del suo testo non sembra offrire queste scoperte impressionanti che, almeno la recensione del Corriere farebbe sembrare. Se dunque, a parte non essere esattamente delle assolute novità, questi dati sono corretti, l’unico problema di questa prima sezione riguarda la loro parzialità: per esempio, se è vero che il numero di conflitti tra Paesi è in calo, è altresì vero che il numero di conflitti all’interno dei Paesi è in aumento, per esempio. Allo stesso tempo, se le minacce militari hanno smesso di impensierire alcuni Paesi, nuove minacce sono sorte: la Russia difficilmente sgancerà i suoi ordigni atomici sull’Europa, ciononostante, bloccando i suoi rifornimenti energetici può lo stesso mietere vittime nel Vecchio Continente. Parallelamente, è vero che l’Unione Sovietica è crollata, ma è altrettanto vero che sia attori non-statali (dai pirati ai terroristi) che statali (Cina, Brasile, India – solo per dirne alcuni) si stanno rafforzando drammaticamente in campo militare. Nel 1959 c’erano due sole potenze nucleari. Ora sono almeno otto, e nei prossimi anni potrebbero superare la decina. Cinquant’anni fa, i Paesi che contavano su missili ballistici erano sempre due, ora sono una quindicina. Sempre mezzo secolo fa, le aree tribali del mondo, dall’Afghanistan alla Somalia, erano dominate da gruppi scarsamente equipaggiati che non impensierivano praticamente nessuno. Oggi, sia in Afghanistan che in Somalia, abbiamo terroristi e pirati in possesso di strumenti militari altamente efficaci e sofisticati che minacciano più o meno direttamente sia il nostro benessere che la nostra sicurezza.
Capire – la chiave della verità
Se dunque i dati offerti, per quanto parziali, sono tutto sommato corretti, il vero problema del testo di Arlacchi arriva quando l’autore ne presenta la propria interpretazione. Arlacchi nota la riduzione della violenza globale e la interpreta come un trend incontrovertibile – destinato a continuare. Il problema è che un dato del genere non dice niente sul futuro. Il fatto che un individuo non si sia ammalato per i primi quarant’anni della sua vita, non impedisce che questi venga stroncato da una patologia mortale al suo 41esimo compleanno. Infatti, trend assolutamente analoghi a quelli descritti da Arlacchi a proposito della conflittualità mondiale sono rilevabili dal 1815 al 1870, quando il mondo andò incontro ad un declino del numero dei conflitti. Ciò, tuttavia, non impedì lo scoppio di una serie crescente di conflitti che aprì progressivamente la strada alla Prima Guerra Mondiale. Sostenere dunque che, alla luce della riduzione del numero delle guerre nel corso degli ultimi cinquantanni, i conflitti armati siano destinati a scomparire ha un vago sapore astrologico.
Infatti, quello compiuto da Arlacchi è un grave errore metodologico: con un’analisi quantitativa si cerca di fornire una risposta qualitativa. Per un sociologo, che oltretutto vorrebbe scrivere un testo scientifico, questo non è esattamente un gran risultato.
In secondo luogo, Arlacchi guarda ai dati, ma i dati, senza teorie sono muti. Colto da una vena behaviourista, Arlacchi ha infatti deciso di ritornare alla metodologia delle scienze sociali che andava di moda una cinquantina d’anni fa: appunto il behaviourismo, defunto approccio strettamente induttivista che vorrebbe dalla semplice osservazione dei dati, che per loro definizione non possono essere nè completi nè generali, trarre spiegazioni valide universalmente. Va bene che i dati che egli considera sono di quel periodo, ma la domanda che sorge spontanea è se per studiare il Medio Evo sia allorai necessario utilizzare calamaio e piccione viaggiatore…
L’ex-vice segretario ONU, con il suo approccio un po’ démode, infatti, non ci sa dire per quale ragione i conflitti armati sono diminuiti. E dunque non ci sa neppure dare una ragione per credere che questo trend possa continuare.
Arlacchi sostiene poi che le guerre, e la guerra come istituzione, sarebbero anche inutili: il numero di conflitti risolti attraverso negoziato rappresenterebbe infatti il 92,5% del totale – afferma solennemente. Di qui, l’interessante conclusione secondo la quale le organizzazioni internazionali favorirebbero gli accordi negoziali. I problemi riscontrabili in affermazioni simili sono molteplici. Qualche semplice domanda ne rivela infatti la fallacità: in quanti casi, prima del negoziato, vi è stata una guerra? E in quanti casi, la minaccia dell’uso della forza ha convinto una o entrambi le parti al negoziato? In quanti casi, ancora, l’accordo finale è stato garantito attraverso il dispiegamento della forza – missioni internazionali, etc.? Arlacchi non ce lo dice, e si capisce presto perchè: se dovessimo considerare solo i casi nei quali due parti hanno trovato un accordo, senza alcun ruolo della forza, scopriremmo ben presto che quei Paesi avevano già rapporti pacifici. E quindi il ruolo delle organizzazioni internazionali sarebbe pressochè nullo.
La guerra è la continuazione della politica, e gli accordi ne sono la protuberanza legale. Forza, politica e legge sono come la Santissima Trinità: senza di uno dei suoi componenti, tutta la costruzione crolla. In questo senso, Arlacchi compie lo stesso errore della scuola legalistica che vorrebbe il diritto al di sopra della politica, dimenticandosi che la politica (e i rapporti di forza che la regolano) determina il diritto. L’espressione “Might makes right“, non dice solo che il forte determina cosa e giusto e cosa è sbagliato, ma anche cosa è permesso o meno.
I dati forniti nel testo presentano poi numerose occasioni per polemizzare. Arlacchi nota come speranza di vita, benessere e ricchezza siano cresciute drammaticamente negli ultimi cinquant’anni. Prendendo un arco temporale più lungo: tipo gli ultimi duecento anni, si vedrà come la ripidità della curva sia ancora più marcata di quanto il sociologo sottolinei. Eppure gli organismi proposti alla cooperazione e allo sviluppo internazionale esistono solo da mezzo secolo: usando i dati, come fa Arlacchi, dovremmo allora sostenere, e lui con noi, l’inutilità di enti quali World Bank, United Nations Development Program, FAO, World Food Program, etc.
Arlacchi, avendo lavorato all’ONU, sembra offrire invece una risposta diversa, paradossalmente: l’indispensabilità di detti enti. Infatti, pur non toccando l’ambito dello sviluppo, egli dice che gli organismi internazionali assicurerebbero maggiore stabilità: una tale affermazione suona come l’urlo disperato dell’ultimo giapponese non intento ad arrendersi di fronte alla fine della guerra. L’ONU manca sistematicamente in tutti i teatri laddove sarebbe “maggiormente” necessaria: Iraq, Afghanistan, Darfur, Myanmar? L’ONU non c’è, il benessere dei suoi ottimamente retribuiti funzionari è chiaramente più importante della pace e della stabilità – con buona pace delle dichiarazioni retoriche di Arlacchi. Le missioni ONU in Africa hanno, finora, portato a scarsissimi risultati. Arlacchi, che ha tanta dimestichezza con i dati, potrebbe fornire qualche dato a proposito: quale è il tasso di successo delle missioni ONU? Rwanda, Congo, Costa D’Avorio, Angola: solo per restare in Africa. Data, please!
Conclusioni o effusioni?
Dunque, si chiede Arlacchi al termine di questo martoriato lavoro, perchè di fronte alla crescente pacificità del mondo, spendiamo tanto in armamenti? Come mai siamo costantemente soggetti a paure e fobie? La risposta, tutt’altro che scientifica, è di tipo cospirazionisto – il vero alveo della cultura politica di Arlacchi. Secondo il sociologo, vi sarebbe un’industria della paura che profitterebbe nel generare terrore e paura.
Come abbiamo visto, i dati di Arlacchi descrivono solo una parte della storia e non sono in grado di dirci nulla sul futuro. Dunque, in primo luogo, questo grande inganno che il suo testo vorrebbe svelare non sembra esserci. Il mondo ha osservato sì dei notevoli miglioramenti, ma le insidie non sono sparite. In particolare, il futuro promette di essere molto più incerto e pericoloso del futuro.
Arlacchi afferma che questa sensazione è prodotta ad arte da un’industria della paura. In primo luogo, che l’industria della difesa, come quella dei funzionari internazionali, abbia bisogno di guerre e conflitti per prosperare e crescere non c’è dubbio. Di qui a dire che siano i peace-keepers dell’ONU o i CEOs delle grandi multinazionali degli armamenti a creare terrore e insicurezza ce ne passa.
Che il bilancio della Difesa cinese corra ad una crescita del 20% annuo, che l’Iran si voglia dotare di armi nucleari, che Venezuela o Sudan rafforzino i loro apparati militari non sono invezioni. Sono dati. Come sono dati quelli ricordati all’inizio, a proposito della minaccia rappresentata da pirati o terroristi.
In secondo luogo, bisogno fare un’importante precisazione sulle spese per la difesa. Esse hanno valori enormi, in termini assoluti. Come Arlacchi però ben sa, esse rappresentano, in percentuale del PIL, valori nettamente inferiori rispetto a solo cinquantanni fa. Guardando i grafici, si nota come i bilanci della difesa siano molto ricettivi rispetto al panorama internazionale: altissimi durante la Seconda Guerra Mondiale, sono calati subito dopo, ma poi hanno ripreso a crescere quando la Guerra Fredda ha trovato i suoi picchi e poi sono crollati insieme al Muro di Berlino. In America, ma non in Europa, hanno osservato un nuovo trend positivo dopo l’11 settembre, che però sembra destinato a finire a breve: non tanto per Obama, ma perchè l’America ha sfide più importanti sulle quali concentrarsi. Ora la crisi finanziaria minaccia di più l’America dei talebani.
Dunque, se i conflitti sono diminuiti, anche i bilanci della difesa, in valore relativo, hanno seguito lo stesso pattern. Gli alti livelli assoluti, in ogni caso, non indicano necessariamente una maggiore capacità operativa e militare. Il triste caso europeo è paradigmatico: l’Europa, considerata nel suo insieme, ha il secondo bilancio della difesa al mondo. Eppure, i suoi Paesi, con l’eccezione dell’Inghilterra (crisi finanziaria permettendo) e in parte Francia, non sono in grado di mantenere missioni all’estero per periodi prolungati. In Italia il 70% del bilancio della Difesa va in spese per il personale, delle quali una gran parte è assorbita da pensioni.
Infine, Arlacchi sembra dimenticarsi un dato particolarmente importante. Le presunte alte spese in armamenti sono dovute principalmente all’elevato contenuto tecnologico degli acquisti contemporanei. E i prodotti attualmente elaborati dall’industria della difesa sono così costosi per due semplici motivi: essi sono ambiscono ad avere la massima precisione ed affidabilità, e, parallelamente, sono mirati a proteggere i soldati. Il risultato di questi due obiettivi è molto semplice: minori vittime civili, minori vittime tra i propri effettivi.
Per assurdo, dunque, Arlacchi condanna proprio il fattore che ha permesso i trend che poi egli stesso celebra nel suo studio: la riduzione delle vittime osservata negli ultimi conflitti.
In conclusione, come tutti i testi di natura cospirazionistica, il testo di Arlacchi delude e non poco. Spaccia per scientifico ciò che scientifico non è, e trae conclusioni che non reggono nè di fronte alla prova dei fatti, nè logicamente nè metodologicamente.
Scopri di più da Epistemes
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.