di Mauro Gilli
Usando una formula retorica, si potrebbe dire che “uno spettro si aggira per l’Europa, il protezionismo”. Infatti, pur essendo ancora “una prospettiva lontana”, come ha scritto il Financial Times il 5 febbraio, esiste una paura crescente che gli Stati europei adottino politiche discriminatorie verso i prodotti esteri.
Questa tendenza, è bene sottolineare, non è isolata all’Europa. Anche negli Stati Uniti si sono alzate le voci di chi chiede di “buy american goods”, dietro una malcelata necessità di aiutare i produttori locali.La domanda che ci si pone è come mai, d’improvviso, il protezionismo possa diventare di nuovo una realtà corrente, dopo che per tutti gli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio non si è fatto altro che parlare di un mondo globalizzato dal quale non ci si poteva sottrarre.
Incolpare i politici – solitamente non lungimiranti e proni a servire gli interessi di specifici gruppi – piuttosto che la crisi economica in corso può essere un utile esercizio retorico, ma non aiuta a capire il contesto attuale, soprattutto in luce del fallimento del processo di Doha di quest’estate (le cui origini risalgono a ben prima dell’inizio della crisi attuale). Ovviamente entrambi i fattori giocano un loro ruolo. Il punto centrale è che questo non è decisivo.
Il fattore decisivo va trovato altrove, più precisamente nel fatto che gli Stati Uniti abbiano abbandonato il ruolo di leadership (o hegemony) a favore del commercio internazionale che hanno svolto negli ultimi 60 anni. Come avevamo sottolineato la scorsa estate, nella recensione del libro di Fareed Zakaria, una delle possibili conseguenze del declino degli Stati Uniti come paese egemone nel sistema economico mondiale è proprio il ritorno a pratiche protezionistiche. Durante gli ultimi sessant’anni, due fattori hanno caratterizzato la politica internazionale. Da una parte gli Stati Uniti sono riusciti ad estendere la loro influenza politica, imponendosi come paese egemone dell’economia occidentale, e, dopo il 1989, di quella mondiale. Allo stesso tempo, i commerci internazionali si sono espansi, con una serie di processi di liberalizzazioni che, dal Kennedy Round, passando per il Tokyo Round e l’Uruguay Round, ha visto una progressiva riduzione delle barriere doganali a livello internazionale.
Questi due trend sono tutt’altro che indipendenti l’uno dall’altro. Come il politologo di Stanford Stephen Krasner ha dimostrato, la presenza di un paese egemone, in virtù del suo potenziale economico, favorisce l’apertura dei commerci. Al contrario, un mondo multipolare non garantisce le condizioni necessarie per l’apertura al commercio internazionale, creando così i presupposti per l’adozione di pratiche protezinonistiche (“State Power and the Structure of International Trade”). Krasner non è l’unico ad aver svolto ricerche su questo campo. Negli stessi anni in cui il suo articolo veniva pubblicato, due figure illustri dei rispettivi campi, l’economista Charles Kindleberger e il politologo di Princeton Robert Gilpin, arrivarono alle stesse conclusioni, formulando quella che oggi più comunemente viene chiamata teoria della stabilità economica.
L’apertura ai commerci internazionali, secondo i due esimi studiosi, è una forma di gioco strategico. Un chiaro problema di coordinamento tra gli attori ostacola l’ottenimento del risultato ottimale. Ogni attore trae vantaggio dall’apertura ai commerci. Questo risultato, però, viene ostacolato dal timore di ogni singolo attore che gli altri non facciano altrettanto. Proprio questo tipo di timore spiega come mai gli Stati nazionali, invece di aprire le loro economie ai prodotti stranieri indipendentemente dalle scelte degli altri Paesi, preferiscano utilizzare i “round negoziali”. Codesti fori permetterebbero infatti di risolvere il problema di coordinamento appena descritto – i partecipanti, in quanto tali, perseguono il fine di aprirsi al commercio estero.
Un meccanismo simile (che funziona al contrario) riguarda la scelta di ritornare a pratiche protezionistiche. Gli Stati sanno che il nazionalismo economico non è una scelta ottimale se tutti gli Stati rimangono impegnati al commercio internazionale. Allo stesso tempo, se si diffonde il timore che tutti gli altri attori “vanno per la loro strada”, ogni Stato farà altrettanto. In questa maniera si giunge ad un sistema economico internazionale protezionista. Questo è il processo descritto da Richard Cooper nel suo The Economics of Interdependence e da Kindleberger nel suo The World in Depression: 1929-1939.
Kindleberger, in particolare, sottolineò come fu l’assenza di un paese che si assumesse la resopnsabilità del sistema internazionale a permettere agli Stati nazionali di cedere alla tentazione di svalutare le loro valute e di adottare misure in difesa dei produttori locali. Se “l’Inghilterra non era più in grado di svolgere quel ruolo,” scrisse il famoso economista, “gli Stati Uniti non erano ancora intenzionati a farlo.” Questo spiegherebbe, secondo Kindleberger, per quale motivo la crisi degli anni ’30 fu “così diffusa, profonda e prolungata”.
La lezione della grande depressione, concluse, è che per “stabilizzare l’economia mondiale, serve un [paese che assolva la funzione dello] stabilizzatore”. Serve un paese-leader nel sistema internazionale che fornisca i beni pubblici necessari al mantenimento dell’ordine. Malgrado non ci sia ancora un consenso diffuso, gli Stati Uniti non sono più in grado di svolgere questo ruolo di leadership. Ciò non è dovuto alla gestione degli affari domestici e internazionali di George W. Bush. Ciò è dato dal declino relativo degli Stati Uniti a livello internazionale, e alla crisi sociale, politica ed economica interna che è stata sedata negli ultimi vent’anni a colpi di inizioni monetarie, e che ora rischia di assumere dimensioni assai vistose.
Gli Stati Uniti non possono più permettersi, come fecero durante gli anni ’50 e ’60, di svolgere il ruolo di mercato per “distressed goods”. Possono ancora svolgere il ruolo di “prestatore di ultima istanza”, come hanno dimostrato a fine ottobre, ma anche in questo campo, la loro capacità è limitata.
Quali cambiamenti bisogna aspettare, dunque, nel panorama economico internazionale? Secondo la teoria della stabilità egemonica, esiste un forte rischio che gli Stati nazionali tornino ad adottare politiche protezionistiche, una volta che il paese egemone non sia più in grado di costringere tutti gli attori a rispettare le regole del gioco. Secondo l’istituzionalismo-neoliberale, invece, l’esistenza di organizzazioni internazionali garantirebbe il mantenimento del sistema di commercio attuale, anche in assenza di un egemone. Robert Keohane delineò questa sua teoria nel suo celeberrimo lavoro dall’emblematico titolo After-Hegemony: Cooperation and Discord in the World Politicaly Economy. Poichè l’interazione tra gli stati è ripetuta, ogni Stato è ha potuto sviluppare una sua credibilità internazionale nel rispettare gli accordi. Questa credibilità, insieme al ruolo svolto da specifiche organizzazioni (in questo caso, il WTO: l’arbitro che permette di eliminare la paura che gli altri “barino”) permetterebbe di mantenere e garantire i livelli di scambio commerciale raggiunti fin’ora.
E’ difficile fare previsioni. Con una certa sicurezza si può escludere un ritorno su vasta scala di pratiche protezionistiche (insomma: non avremo una ripetizione delle pratiche degli anni ’30). Dall’altra, però, è ragionevole credere che ogni Stato si abbandoni a qualche “piccola” tentazione, facendo segnare così un passo indietro nei progressi fatti fin’ora.
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