Obama e la finanza
di Mario Seminerio – © LiberoMercato
Nei giorni scorsi il team di Barack Obama ha preannunciato di voler procedere speditamente alla riforma del sistema regolatorio della finanza statunitense, stringendone le maglie. Poiché l’attuale amministrazione porta con sé un livello di aspettative fortemente sovradimensionate, questa semplice enunciazione ha già suscitato le critiche di quanti accusano Obama di non mantenere le promesse di cambiamento radicale, e di volersi invece muovere al margine di un contesto già fallito. Senza voler fare il processo alle intenzioni, e nella sostanziale assenza di atti concreti, è comunque opportuno tentare di analizzare le linee-guida della riforma della regolazione.
Tra le quali figurano una stretta agli hedge funds, una verifica più stringente dei criteri adottati dalle agenzie di credito ed ai broker ipotecari, ed una maggiore supervisione degli strumenti d’investimento complessi che hanno condotto all’attuale crisi. Come da conclusioni del comitato internazionale di trenta “saggi” guidato dall’ex presidente della Fed, Paul Volcker, sembra emergere la necessità di ricondurre ad un unico ombrello regolatorio, coordinato a livello internazionale, le principali compagnie e strumenti finanziari. E fin qui, siamo nel mondo dei solenni enunciati. Sulle agenzie di rating, ad esempio, non è chiaro se Obama e la sua squadra agiranno solo sui conflitti d’interesse (che sorgono perché le agenzie sono pagate per aiutare le aziende a costruire strumenti finanziari a cui poi le agenzie medesime assegnano un rating), oppure anche sui conflitti di competenza, cioè sulla dipendenza pressoché assoluta delle agenzie dalle informazioni prodotte dagli emittenti i titoli strutturati. Oppure ancora sulla profondità dei conflitti d’interesse: spesso si tende a dimenticare che i migliori analisti delle agenzie tendono a migrare verso Wall Street, assunti da quelle stesse imprese a cui hanno fornito una spesso benevola consulenza.
E ancora: l’amministrazione si prepara a chiedere l’istituzione di casse di compensazione per i derivati di credito come i credit default swaps, che sono l’equivalente di premi assicurativi contro l’insolvenza di un determinato emittente, e che sono stati al centro del collasso di AIG ma anche del dissesto di molti fondi hedge. Qui il principio della nuova regolazione è tanto solennemente condiviso quanto di assai ardua implementazione. Senza scendere in tecnicalità, basti pensare che l’istituzione di una cassa di compensazione, oltre a richiedere tempo, necessiterebbe anche di risolvere il problema dell’entità dei margini iniziali di garanzia. Oggi (anzi, ieri) tali margini erano pressoché nulli, trattandosi di contratti bilaterali e “over-the-counter”, cioè stipulati da controparti che ritenevano di conoscersi talmente bene da evitare margini di garanzia, soprattutto all’interno di un rapporto di affari consolidato. Ma questa consuetudine ha finito col gonfiare a dismisura l’entità delle scommesse prese sul rischio di credito degli emittenti, e con esse il rischio d’insolvenze sistemiche.
A quanto dovrebbe ammontare, quindi, il margine iniziale? Alcuni osservatori parlano addirittura di un 50 per cento del valore della protezione, cosa che richiederebbe un tale impegno di capitale da eliminare non solo la componente speculativa a leva, ma anche la finalità originaria di protezione dal rischio di default di un emittente di cui si possiede in portafoglio un titolo. E ancora: i contratti sui credit default swaps continueranno ad essere regolati per cassa o richiederanno la “physical delivery”, cioè il materiale possesso del titolo che si sta cercando di immunizzare dal rischio di insolvenza? Se tutto ciò sembra insopportabilmente esoterico, si pensi solo ad un dettaglio: l’apocalittico buco di 15 miliardi di dollari nei conti di Merrill Lynch, prodottosi (secondo la narrativa mendace dell’ex Ceo John Thain) pressoché subitaneamente a dicembre 2008, e che stava portando a fondo anche Bank of America, l’acquirente di Merrill, è stato quasi certamente prodotto da un basis trade sui credit default swap. Le controparti delle posizioni in derivati, dopo il fallimento di Lehman, hanno chiesto forti aumenti dei margini di garanzia sulle posizioni, molti operatori non disponendo di quel denaro sono stati costretti a chiudere l’operazione, e si è prodotta una voragine su conti a leva anche di decine di volte. Lo stesso sembra essere accaduto a Deutsche Bank, che ha presentato conti del quarto trimestre disastrati da un’unica grande perdita su trading, al punto che osservatori esterni hanno persino ipotizzato l’azione di qualche “trader canaglia” alla Jerome Kerviel. Quindi, benvenuta la cassa di compensazione centralizzata, ma con quali limiti?
Ancora: si dice spesso che la SEC non ha denti, e quindi che Obama dovrebbe potenziarla, ma pare che le cose non stiano esattamente in questi termini. La SEC è una elefantiaca organizzazione di 3500 dipendenti e dotata di un bilancio di 900 milioni di dollari, i cui poteri investigativi sono talmente vasti (sulla carta) da non necessitare di alcun rafforzamento legislativo o di dotazione aggiuntiva di risorse. Ad ogni mega-scandalo la SEC chiede e ottiene più mezzi solo per scoprire, allo scandalo successivo (si chiami esso Enron o Madoff), che i suoi poteri sono rimasti largamente inesercitati. Da queste poche considerazioni appare evidente che una cosa sono i principi, ben altra la loro implementazione.
Certo, vi saranno ambiti regolatori in cui sarà possibile essere immediatamente produttivi, ad esempio togliendo agli stati la supervisione sulle assicurazioni, per affidarla magari alla Fed in caso di rilevanza sistemica delle transazioni finanziarie da esse attuate. Ma in altri casi, e segnatamente in tutti quelli in cui è presente il ricorso alla leva finanziaria ed è fondamentale il ruolo delle agenzie di rating, Obama non potrà fare da solo. Analogamente al coordinamento macroeconomico servirà anche un coordinamento regolatorio internazionale, senza il quale si aprirebbero spazi di arbitraggio e rischi di delocalizzazione dell’industria finanziaria (magari offshore, negli stati del Golfo), che darebbero alla lobby di Wall Street argomentazioni decisive per bloccare ogni vero tentativo di riforma. Ma il coordinamento internazionale costa tempo, e defatiganti negoziati che spesso producono esiti largamente subottimali. In quel caso torneremmo alla casella di partenza. Per questo ci attendono settimane e mesi cruciali.
Obama non è un taumaturgo, e probabilmente egli è il primo ad essere consapevole di ciò. Ma il rischio di produrre solenni dichiarazioni di principio e nessuna vera riforma (o peggio, burocrazie inefficaci ed inefficienti) è molto alto.
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