di Piercamillo Falasca – da L’Occidentale di venerdì 23 gennaio 2009 (Titolo originario: Ora la Lega si prepara ad incassare il dividendo per le Europee)
Ieri (giovedì 22 gennaio, ndr) il Senato ha approvato il disegno di legge delega sul cosiddetto federalismo fiscale. Politicamente parlando, la Lega ha realizzato un capolavoro: ha evitato che la crisi economica insabbiasse il progetto, ha tenuto insieme la maggioranza, ha ottenuto l’astensione del Pd concedendo ai democratici alcuni emendamenti. Insomma, Umberto Bossi si prepara ad incassare il dividendo elettorale alle europee. Sempre politicamente parlando, Giulio Tremonti si è dimostrato un gran giocatore: non scopre le sue carte, tiene in mano il pallino e si prepara alle negoziazioni che verranno da una posizione di forza. Il superministro ha ragione, sarebbe impossibile quantificare oggi il costo per l’erario del federalismo, visto il numero di grandi e piccoli dettagli da chiarire nei decreti attuativi.
Rispetto alla versione originaria, le Commissioni hanno apportato alcune modifiche al testo del progetto. Alcune sono positive, altre molto meno. Positive sono, almeno potenzialmente, quelle che tendono ad aumentare i margini di autonomia impositiva concessi alle regioni ed enti locali: quanto più i soggetti federati possono autonomamente scegliere tributi, aliquote e basi imponibili, tanto più ciò crea spazio per una competizione fiscale tra territori, obiettivo imprescindibile di un vero sistema federale.
Degna di merito è anche l’apertura a forme di fiscalità di vantaggio in favore di nuove attività d’impresa: se volesse, la classe politica meridionale potrebbe utilizzare questo aspetto per “scambiare” il taglio dei trasferimenti statali con una riduzione dell’imposizione statale sui territori meridionali (con un buon pressing politico, Bruxelles accetterebbe).
Altre modifiche, invece, sembrano essere la riproposizione dei soliti difetti italiani. Su tutte vale la pena evidenziare una misura su cui sarebbe bene riflettere (e magari mobilitare l’opinione pubblica) nel passaggio alla Camera: l’uso del fondo perequativo per ripianare i deficit strutturali del trasporto pubblico locale è un regalo inaccettabile ai baracconi delle società municipalizzate del trasporto pubblico e alla loro irresponsabile dirigenza para-politica.
Un’altra modifica introdotta al Senato oscilla tra l’ingenuità e il populismo, rasentando l’idiozia: come si può mai pensare che – una volta implementato il modello di autonomia tributaria – il governo possa garantire “la determinazione periodica del limite massimo della pressione fiscale nonché del suo riparto tra i diversi livelli di governo”? Ripartire la pressione fiscale tra livelli di governo significa scardinare il principio dell’autonomia tributaria degli enti. E poi, se davvero ci sarà una sufficiente autonomia tributaria in capo a regioni ed enti locali, assisteremo all’accentuarsi dei differenziali nei livelli di carico fiscale tra i diversi territori, tanto da rendere poco significativo a livello nazionale il concetto di pressione fiscale. E’ alquanto probabile che questo principio resterà lettera morta.
Se si volesse davvero che il federalismo recasse in dote una riduzione della pressione fiscale (e con essa della spesa pubblica) si dovrebbe scegliere la via di una concreta competizione tra i territori e non il modello perequativo. In Svizzera, per fare un esempio di federalismo compiuto, è stata storicamente la dinamica competitiva tra cantoni – e non una legge dello Stato che sa di grida manzoniane – a permettere alla pressione fiscale di restar bassa. A ben guardare, è la competizione tra territori il tratto fondativo dei modelli federali. Se dagli aspetti particolari del disegno di legge in discussione ci spostiamo verso il generale, notiamo l’ambiguità: in Italia stiamo chiamando federalismo un progetto di riforma della finanza pubblica basato sull’assistenza di alcuni territori a beneficio di altri, su meccanismi “dirigisti” quali i costi standard (che pure rappresentano un miglioramento rispetto al grottesco principio della spesa storica, è bene sottolineare), sul mantenimento di un forte potere sostitutivo da parte del governo centrale. Ogni anno, in sede di finanziaria e non solo (l’Italia è il paese del decreto mille proroghe), assisteremo alla richiesta di macro e micro-modifiche, deroghe per una o l’altra regione, ridefinizione di quel costo standard o di quell’altro, richieste di ripiano di debito locali (Catania e Roma docent). Per non parlare della partita che si giocherà, anno dopo anno, sui fondi perequativi.
C’è ancora il tempo, se si vuole, per correttivi che vadano nella direzione della competizione e dei suoi corollari, la piena autonomia degli enti “federati” e la previsione di meccanismi che “leghino le mani” al governo centrale. Ma c’è la volontà politica di intraprendere un percorso tanto coraggioso? Si ha come la sensazione che, nei prossimi anni, i veri federalisti – quanti credono che il federalismo sia quel modello istituzionale che, replicando le dinamiche del mercato, permetta di raggiungere obiettivi di efficienza e di prezzi (leggasi, tasse) contenuti – avranno molto da lavorare.
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