Tagli d’imposta e spesa pubblica, Obama sbaglia calcoli

di Mario Seminerio – © LiberoMercato

Mentre la recessione statunitense si aggrava di mese in mese, come testimoniato anche dall’andamento dell’occupazione, l’indicazione delle linee guida del piano di stimolo dell’Amministrazione Obama ha suscitato perplessità e polemiche, sia per l’entità della manovra (che rischia di essere insufficiente rispetto al crollo dei livelli di attività che va delineandosi) sia per il mix di interventi prescelti. In particolare, Obama prevede che il 40 per cento dell’intervento possa essere rubricato alla voce “tagli di tasse”. Ciò ha immediatamente sollevato le vivaci ed argomentate rimostranze di Paul Krugman. Il premio Nobel 2008 per l’Economia sostiene che, data la relativa esiguità del pacchetto rispetto alla contrazione, occorre massimizzare l’impatto sulla domanda aggregata dei singoli interventi. Il calcolo di Krugman si basa sulla cosiddetta Legge di Okun, l’antica (e gloriosa) relazione empirica che lega le variazioni di Pil a quelle della disoccupazione.

Le stime di Krugman ipotizzano che per ogni aumento del 2 per cento di Pil la disoccupazione si riduca di un punto percentuale. La manovra di Obama sarà di circa 775 miliardi in due anni, di cui 300 miliardi in tagli di tasse ed il resto in spesa pubblica diretta. Oggi il Pil statunitense vale 15.000 miliardi di dollari, quindi per la Legge di Okun con i parametri utilizzati da Krugman occorrono 300 miliardi di dollari l’anno per ridurre di un punto la disoccupazione. Il problema principale, nell’esecuzione del piano, è dato (come sempre accade nelle decisioni di politica economica) dalla incerta grandezza dei moltiplicatori fiscali, cioè dall’entità dell’impatto sul Pil di ogni misura adottata. Sabato scorso il team di Obama  ha reso note le stime dei moltiplicatori fiscali utilizzati per quantificare l’impatto sul Pil della manovra. Quello di spesa pubblica è pari a 1,57 (ottimistico ma verosimile), quello della riduzione d’imposta è di 0,99, molto basso e inferiore alle stime ricavate dagli studi di David e Christina Romer (la neo-presidente del Council of Economic Advisors di Obama), che in un ormai celebre paper avevano stimato il valore del moltiplicatore delle imposte come compreso tra due e tre. In pratica, Obama resta molto conservativo (cioè cauto) sull’effetto espansivo di tagli d’imposta, e decisamente ottimista sulle virtù della spesa pubblica di produrre crescita. Il valore di 1,57 è la media delle componenti costitutive dello stimolo dal versante della spesa pubblica. Per i tagli d’imposta sulle imprese, di cui parleremo a breve, i numeri potrebbero essere ben minori, e non superare l’unità.

Dati i moltiplicatori stimati dalla squadra di Obama ed il mix di strumenti utilizzati ciò significa che, in media annua, l’intervento dovrebbe riassorbire poco meno di 2 punti percentuali di disoccupazione. Ma le stime del Congressional Budget Office prevedono un tasso medio annuo di disoccupazione del 9 per cento nei prossimi due anni. Quindi la discesa a poco più del 7 per cento rischia, a giudizio di Krugman, di essere considerata un sostanziale fallimento, visto che il tasso di disoccupazione di pieno impiego è stimato di poco superiore al 5 per cento. Non sono questioni accademiche: si tratta della stessa differenza che intercorre tra un’economia rimessa sui binari di crescita ed una che continua ad indebolirsi e generare pressione deflazionistica.

Esaminiamo più da vicino le misure fiscali. In primo luogo, occorre premettere ed enfatizzare che Obama non sta in alcun modo seguendo le orme di George W.Bush: quest’ultimo ha adottato nel corso degli anni riduzioni d’imposta centrate sull’appiattimento della curva delle aliquote personali sul reddito e sul taglio della tassazione dei dividendi, tutti elementi che tendono a beneficiare i contribuenti più ricchi. Obama agirà invece sui contributi sociali, beneficiando i lavoratori a reddito basso e medio, quelli da cui ci si attende un maggiore impatto moltiplicativo degli sgravi (le stime più recenti vedono un valore di 1,4). Le manovre sulle tasse del presidente uscente e di quello entrante sono quindi molto diverse.

L’ipotesi di intervento sulla tassazione d’impresa elaborata da Obama lascia invece piuttosto perplessi. Esso è articolato in tre punti: col primo, le aziende potranno retroattivamente detrarre le perdite del 2008 e del 2009 dal debito d’imposta dei cinque anni precedenti, ottenendo robusti rimborsi fiscali. Le imprese, per ottenere il rimborso di quanto pagato al fisco negli anni precedenti, potranno inoltre procedere a svalutazioni di cespiti acquisiti fino al primo gennaio 2009. L’ultimo beneficio prevede un credito d’imposta di un anno per i datori di lavoro che procedano a nuove assunzioni o rinuncino a licenziare. Il piano Obama amplierebbe poi l’importo massimo di spese detraibili dalle piccole imprese, da 175 a 250 milioni di dollari. Ma l’aspetto più curioso risiede nella furiosa attività di lobby esercitata sul Congresso da aziende che negli scorsi anni risultavano sistematicamente in perdita. Costruttori automobilistici, acciaierie, alcune aerolinee, imprese in startup chiedono a gran voce il “rimborso” delle perdite, concetto surreale quasi quanto la procedura amministrativa che dovrebbe essere allestita per erogare crediti d’imposta “premiali” ad imprese che dichiarino di aver desistito dal procedere a licenziamenti. In simili condizioni, il minimo che si può ipotizzare è l’utilizzo dei rimborsi fiscali per ripianare il debito, proprio come fatto da molte delle famiglie beneficiarie dei rebates dell’Amministrazione Bush della scorsa primavera. Inoltre, simili erogazioni finirebbero anche ad aziende che in condizioni normali sarebbero destinate a soccombere alla normale dinamica di mercato, tenendole artificialmente in vita e danneggiando la crescita della produttività di lungo periodo dell’economia americana, oltre a rappresentare una forma neppure troppo occulta di protezionismo, destinata a suscitare contestazioni in sede WTO e comportamenti imitativi da parte di altri paesi. Da qui l’evidente rischio di inefficacia dello stimolo, che tanto preoccupa Krugman. Ma sarebbe bene anche evitare di pensare ad una spesa pubblica inequivocabilmente efficace ed efficiente, come dimostrano gli sconcertanti resoconti di utilizzo dei fondi del Piano Paulson, caratterizzati da irresponsabilità e sciatteria organizzative senza precedenti da parte del Tesoro, e pressoché prive di accountability su costi e benefici dell’impiego dei fondi. Non a caso Obama ha designato una “chief performance officer” proveniente dalla consulenza manageriale per monitorare e rendere pubblico l’intero processo di impiego dei fondi federali. In questo modo, è l’assunto implicito, dovrebbe essere possibile aumentare l’impatto espansivo della spesa pubblica.

Obama sta cercando di perseguire la propria idea di un’espansione guidata in misura decisiva dal settore privato, anche nella creazione di nuova occupazione, per vincere l’ostilità dei Repubblicani del Congresso ma anche per ottenere il sostegno dei Blue Dog Democrats, la piccola ma agguerrita pattuglia di Democratici che si definiscono conservatori fiscali. Nell’attuale situazione di recessione in aggravamento, il nuovo inquilino della Casa Bianca potrà solo cercare di sbagliare il meno possibile, restando ben consapevole di trovarsi in acque inesplorate e minacciose, e di non possedere alcun “proiettile d’argento”.


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