Stimoli fiscali a livello globale per spingere la ripresa

di Mario Seminerio – © LiberoMercato
Nelle ultime settimane il cambio della valuta cinese contro dollaro ha evidenziato il sostanziale arresto del movimento di rivalutazione dello yuan che durava da circa due anni. Ciò si è verificato in parallelo alla pubblicazione di dati macroeconomici cinesi che hanno segnalato un progressivo e marcato deterioramento di manifattura, export ed investimenti. Ciò solleva interrogativi circa l’emergere di comportamenti che potremmo definire protezionistici in senso lato, tra i quali figura la gestione del cambio. Una conseguenza della crisi finanziaria sono i deflussi di capitale dai paesi emergenti che nelle scorse settimane, al culmine della crisi, hanno contribuito all’apprezzamento del dollaro. Poiché deflussi di capitale, per essere sostenibili, necessitano di surplus commerciali, si comprende agevolmente il desiderio dei paesi emergenti di attutire lo shock cercando di aumentare il proprio export. Ovviamente, se un crescente numero di paesi tenta di puntellare il proprio Pil attraverso le esportazioni, gli squilibri mondiali sono destinati ad aggravarsi, e con essi il rischio di crescenti pulsioni protezionistiche.

Gli Stati Uniti, da molti anni il principale contributore mondiale di domanda netta, hanno iniziato il lento e doloroso processo di riduzione della leva finanziaria, da conseguire soprattutto attraverso l’aumento del tasso di risparmio. La svalutazione del dollaro indotta dalle politiche di forte espansione monetaria attuate dalla Fed dovrebbe servire, in teoria, a promuovere la crescita dell’export statunitense. Ma questo aggiustamento si scontra con l’attitudine di paesi, come la Cina, il Giappone e più in generale l’Asia (ma anche la Germania), che basano il proprio modello di sviluppo soprattutto sulle esportazioni, sia pure con differente valore aggiunto. In questo contesto, quindi, la politiche monetarie e di cambio non possono fare molto, ed anzi rischiano di rivelarsi controproducenti, spingendo ad esiti noti in letteratura come “beggar-thy-neighbour” (impoverire il vicino).

Ma lo stesso vale per la politica fiscale, se adottata in modo non coordinato. Come noto, l’effetto espansivo delle misure fiscali dipende dal cosiddetto “moltiplicatore keynesiano”, la cui dimensione dipende da tre elementi: la propensione marginale al consumo, l’aliquota marginale d’imposta e la propensione marginale ad importare. Il primo elemento, crescendo, aumenta l’impatto dell’espansione fiscale sulla domanda aggregata, il secondo e (soprattutto) il terzo lo riducono. Ipotizziamo di voler promuovere un’espansione del Pil di 1000 miliardi di dollari, e di avere un moltiplicatore keynesiano stimato pari a 1,6. In questo caso, ci servirebbe una manovra da 625 miliardi. Supponiamo di voler aumentare il moltiplicatore keynesiano, portandolo a 2. In questo modo, gli stessi 625 miliardi produrrebbero un’espansione di 1250 miliardi oppure (il che è equivalente) sarebbe sufficiente impegnare 500 miliardi per ottenere una crescita di 1000 miliardi. Ciò può essere conseguito, ricordando quando detto sopra, riducendo la propensione ad importare, che di fatto rappresenta un freno alla crescita interna, perché riversa sulle importazioni parte dello stimolo. Per ridurre la propensione ad importare si possono introdurre misure protezionistiche, come tariffe sull’import. Naturalmente si tratterebbe di un’azione piuttosto miope, per le rappresaglie che implicherebbe da parte degli altri paesi. E’ quello che è successo nel 1930, dopo che gli Stati Uniti approvarono lo Smoot-Hawley Tariff Act, che innalzava a livelli record le tariffe sull’importazione di 20.000 prodotti, e che ha segnato l’inizio del crollo del commercio mondiale durante la Grande Depressione.

Oggi, la storia rischia di ripetersi. Essendo un’economia molto aperta, gli Stati Uniti dovranno presto o tardi confrontarsi con questo dilemma. In una situazione in cui il dollaro si è già apprezzato contro l’Euro, ed ancor più significativamente contro le valute asiatiche (che stanno silenziosamente ripristinando il peg alla valuta statunitense), lo stimolo fiscale di Washington rischia di produrre un deficit commerciale ancora più ampio. Se i consumatori americani decidessero di spendere parte rilevante del proprio reddito aggiuntivo in importazioni cinesi a basso costo, il moltiplicatore scenderebbe, e la ripresa economica sarebbe depotenziata o addirittura rinviata. Quanto tempo trascorrerebbe prima di sentire le grida di dolore dei politici contro il “regalo agli stranieri” rappresentato dalle importazioni? Assai poco. Molti paesi in via di sviluppo non avranno altra scelta che cercare di spingere l’export, per manifesta mancanza di risorse fiscali da impegnare sulla domanda interna, e le stesse misure correttive dei deficit delle partite correnti suggerite dal Fondo Monetario Internazionale si basano sulla compressione della domanda domestica e il rilancio delle esportazioni.

E non sarebbe necessario arrivare alla guerra commerciale conclamata: un rischio trascurato o più propriamente ignorato del commercio mondiale odierno è dato dai margini di manovra sulle tariffe che ogni paese aderente alla WTO può darsi. Esiste infatti una “forchetta” minima e massima di tariffe, ed oggi il sistema è mediamente posizionato nella parte bassa. Sarebbe cioè possibile, senza che ciò rappresenti violazione formale dei trattati internazionali, rendere più costose le importazioni, e questa azione ritarderebbe la ripresa della crescita globale, nella migliore delle ipotesi. Per questo servirebbe uno stimolo fiscale espansivo concertato almeno tra Stati Uniti, Cina e Unione Europea, segnatamente la Germania. Ma ad oggi non sembrano esserci neppure le ipotesi di una tale concertazione virtuosa, e la strada che porta alla ripresa globale resta lastricata di squilibri.

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