di Andrea Gilli
Nel corso dell’operazione militare Cast Lead che ha visto, e ancora vede (seppure presumibilmente per pochi giorni) l’esercito israeliano impegnato a Gaza, in molti hanno sollevato perplessità sulle reali chance di successo di Israele. Soprattutto, a molti è tornato facile fare paragoni con la guerra contro Hizbullah del 2006 dalla quale Israele uscì fondamentalmente sconfitto militarmente.
In contrasto con gran parte delle attese, l’operazione si sta rivelando un successo militare. Cerchiamo dunque di spiegarne le ragioni.
L’operazione Cast Lead si sta dimostrando un successo militare. Giornali e riviste non specializzate si erano da subito affrettate a fare pronostici che andavano nella direzione opposta. Vale la pena capire le ragioni di questa discrepanza.
In primo luogo, è utile capire cosa si intende per successo militare. Un successo militare si ottiene quando un’operazione raggiunge gli obiettivi militari prefissati con costi politici, economici e umani che sono ritenuti accettabili dai vertici politici. Qui si trova il primo punto di forza, e di svolta, rispetto al Libano 2006. Gli obiettivi militari di Israele a Gaza sono raggiungibili, anche perchè il particolare contesto della Striscia permette un’operazione semplice, con rischi moderatamente bassi e alte probabilità di successo. Israele si era posto come obiettivo l’interruzione del lancio di razzi da Gaza. Per fare ciò, la sua strategia si fonda su tre snodi. Colpire il Nord della Striscia di Gaza, in particolare le postazioni dalle quali i razzi vengono lanciati. Tagliare a metà la Striscia, in modo da non permettere più l’arrivo di razzi al Nord. E colpire a Sud i tunnel attraverso i quali i razzi arrivano a Gaza.
In Libano, lo stesso obiettivo, era di più difficile realizzazione – per non dire impossibile. Israele non poteva attaccare tutto il paese (sia per ragioni operative – assenza di un numero sufficiente di uomini – che politiche – opposizione di USA, Siria e Iran – che militari – insostenibilità di un simile conflitto), nè tanto meno poteva colpirlo in tre parti per dividerlo e impedire le operazioni di Hizbullah a sud.
La guerra in Libano divenne dunque in fretta un’operazione con un fine tanto definito quanto vago. Fermare le attività di Hizbullah, quando non c’è modo (per le suddette ragioni politiche, militari e geografiche) di interrompere i suoi rifornimenti nè di stringere l’organizzazione in una morsa, vuole dire lanciarsi in una crociata senza via di scampo. Quando si entra una guerra che non si può vincere è ovvio che in qualsiasi maniera la si concluda, questa è una sconfitta. Ecco come, presto, Israele si andò ad impantanare in un conflitto che, potenzialmente, rischiava di trascinarlo nuovamente nell’occupazione del Libano da cui il Paese si era disimpegnato nel 2000.
Definito cosa intendiamo per successo militare, vale la pena soffermarsi sulle peculiarità di questo scontro per capire le ragioni del successo israeliano.
L’esito di una guerra dipende da una miriade di fattori. Il più importante, secondo la letteratura, è quello umano. Sia a livello di leadership politica, che deve essere capace di identificare gli obiettivi militari, sia a livello militare che deve essere in grado tanto di pianificare un’operazione vincente che di metterla in atto. In semplici termini di combattimento, infine, l’addestramento di un esercito (il suo capitale umano) è una condizione sine qua non per il successo.
Israele partiva dunque fortemente avvantaggiato: la sua società è altamente istruita, la sua leadership politica competente, il suo esercito allenato e soprattutto altamente addestrato, tanto da farne uno dei migliori del mondo.
Nel 2006, Hizbullah non poteva certo contare su un capitale umano pari a quello di Israele. Dalla sua, però, aveva due vantaggi relativi. In primo luogo, i numerosi scontri passati con Israele avevano dato molte lezioni all’organizzazione libanese che, così, si è ristrutturata e ha saputo imparare dalla sua esperienza per poter affrontare l’IDF. In secondo luogo, Hizbullah ha un suo esercito, con i suoi campi di addestramento, e la cui qualità è ulteriormente rafforzata dal sostegno tanto siriano che iraniano, ottenuto almeno negli anni passati, sia in termini di addestramento militare, che di tattica e dottrina.
In altre parole, nel 2006 Israele ha fronteggiato un esercito di tutto rispetto. Inferiore per armamenti e per force deployment, ma certo non fatto di dilettanti e in particolare molto attento a sfruttare tanto i suoi vantaggi strategici e operativi che gli errori del nemico.
Lo stesso non si può dire per Hamas. L’organizzazione palestinese, finora, non è mai stata coinvolta in uno scontro diretto con l’esercito israeliano, specie di lunga durata. Hamas non ha campi di addestramento che possano essere chiamati tali, non ha un suo esercito. Al massimo, ha un suo apparato di sicurezza che però si avvicina più ad una forza di polizia che ad una forza militare. Infine, gli uomini di Hamas non hanno mai potuto godere del sostegno esterno (sia iraniano che siriano o altrui) a livello di tattica militare o di addestramento. Hamas ha un folto gruppo di terroristi suicidi, molto efficaci a colpire dei civili in aree urbane. Il loro furore ideologico però nulla può contro l’efficacissimo esercito israeliano.
In altre parole, la differenza tra Hizbullah e Hamas è la stessa che intercorre tra i membri di Al-Qaeda incontrati nel 2001/02 dalle truppe americane, in Afghanistan, e i talebani. I primi erano altamente addestrati e disciplinati, erano abituati a combattere ed erano pronti a farlo. I secondi avevano solo tanta voglia di combattere – per quanto riguarda la loro preparazione militare basta soffermarsi sulle difficoltà incontrate dai soldati americani nell’eliminarli: praticamente inesistenti.
Abbiamo dunque spiegato che Hizbullah aveva un suo esercito. Quello Israeliano era però nettamente più preparato, meglio equipaggiato e meglio addestrato. Come spiegare dunque l’insuccesso in Libano? In guerra, due eserciti non si scontrano più faccia a faccia praticamente da quando, con la Prima Guerra Mondiale, vi è stata la rivoluzione di fuoco introdotta dalle mitragliatrici. L’esito di un conflitto va a dipendere dunque da altri fattori concatenati a quello umano.
Nel caso del 2006, Hizbullah aveva dalla sua molti di questi fattori. Proprio con la rivoluzione di fuoco della Prima Guerra Mondiale, abbiamo assistito ad una trasformazione radicale del modo nel quale si combatte. Da grandi plotoni, uniti e compatti, che si affrontano direttamente, si è osservato lo spostamento a piccoli gruppi indipendenti, sintonizzati poi grazie alla radio (e ora grazie al NetCentric Warfare), che si muovono cammuffati e coperti, sfruttando la morfologia del terreno (piante, grotte, colline, caverne, cespugli, rocce, etc.) per attaccare l’avversario.
Hizbullah ha, non a caso, fatto largamente uso di coperture e camuffamenti per portare a termine le sue missioni. Non solo: le differenti unità erano tenute in contatto grazie a radio-trasmittenti e i messaggi erano criptati a tal punto che Israele non è mai riuscito a decifrarli. Così, per esempio, i suoi uomini stavano coperti mentre l’esercito israeliano avanzava, via radio venivano avvisati dei movimenti del nemico e poi iniziavano il fuoco una volta che le loro postazioni erano state superate dall’IDF così da ottenere il duplice effetto di spezzare l’avanzata israeliana e di colpire alle spalle i propri nemici.
In questo frangente, Israele ha dovuto prendere atto di due ulteriori difficoltà. In primo luogo, come già detto, geopoliticamente non era possibile attaccare tutto il Libano per isolare Hizbullah. Il Libano è troppo vasto e Israele non avrebbe avuto le risorse umane ed economiche per farlo. E soprattutto sarebbero mancate quelle politiche visto che un tale intervento avrebbe distrutto la precaria situazione interna libanese catapultando nel conflitto tutti gli attori interessati: dagli USA alla Siria fino alla Francia e la Siria.
Il secondo problema ha a che fare con l’intelligence. Israele ha lasciato il Libano nel 2000. Da allora, la sua intelligence ha potuto contare fondamentalmente solo su maroniti libanesi. Per Hizbullah è stato abbastanza facile fornire loro informazioni distorte per dirottare le operazioni israeliane. Inoltre, va considerata anche l’estensione dell’area sulla quale si è protratto il conflitto: di fatto dal confine fino a oltre il fiume Litani. Grosso modo un’area dieci volte quella della Striscia di Gaza, oltretutto spesso con una vegetazione folta e abbondante.
Nel caso di Gaza, Hamas non ha potuto e non può contare su tutti questi vantaggi. In primo luogo, il teatro di combattimento è unicamente urbano. In un contesto come quello iracheno, di post-conflict reconstruction, ciò svantaggia nettamente le truppe regolari. Nel caso di Gaza la situazione è diversa. Quando l’IDF compie operazioni di terra, i civili restano a casa, se possibile vengono sfollati. Le strade restano così deserte, i mercati sono chiusi. Inoltre, l’esercito israeliano mira diretto ad un obiettivo – non compie operazioni di controllo del territorio che lo esporrebbero drammaticamente agli attacchi asimmetrici del nemico. In altre parole, il contesto urbano perde nettamente di valore anche, e soprattutto, perchè i militanti di Hamas, proprio come le truppe di Saddam nel 2003, non sono addestrate per combattare una guerra le città.
Ciò non significa assolutamente che combattere in un contesto urbano sia facile. Ma certamente, per Israele è molto più favorevole operare in un ambiente urbano nel quale ha governato per quasi quarant’anni e che può facilmente monitorare sia attraverso i satelliti che con intercettazioni ambientali, che grazie alla sua intelligence umana (HUMINT), che non in una giungla mediorientale della quale ha una conoscenza molto approssimativa e nella quale non può far conto su informatori e informazioni affidabili.
L’area di Gaza, inoltre, è relativamente ristretta geograficamente, quindi non si corrono rischi simili a quelli corsi in Libano di vedere le proprie linee tagliate dal fuoco nemico.
In definitiva, Israele ha affrontato un nemico chiuso in una scatola, incapace di potersi ritarare nelle retrovie per proteggersi dall’offensiva nemica e senza una riserva di armi e munizio dalla quale attingere in caso di necessità. Lo stesso nemico è quasi totalmente privo di un decente addestramento militare e, nel corso delle operazioni, è anche stato privato di numerosi vertici della sua leadership. Il teatro dello scontro, infine, è ristretto – esso dunque non pone alcun limite operativo ad Israele che, per l’aggiunta, lo conosce anche alla perfezione.
Più che chiedersi come mai Israele stia vincendo, c’è da capire come qualcuno potesse pensare che accadesse il contrario.
Conclusioni
L’operazione Cast Lead ha avuto un costo umano, per i palestinesi, sicuramente tragico. Purtroppo, in guerra le vittime civili sono spesso inevitabili. Israele sta però ottenendo i suoi obiettivi militari – l’interruzione del lancio di razzi dalla Striscia di Gaza contro il suo territorio. Ciò si deve ai devastanti vantaggi di cui gode la sua operazione. Il nemico non è militarmente addestrato e non gode di un terreno di scontro favorevole – o comunque delle capacità tattiche per renderlo tale. L’intelligence israeliana ha completa conoscenza sia dei movimenti nemici che del territorio. A differenza del conflitto del 2006, Israele ha dalla sua soprattutto la rinata consapevolezza interiorizzata dai suoi vertici politici dell’essenzialità della guerra dove gli obiettivi, per essere raggiunti, devono essere raggiungibili e quindi minimi.
Che questo successo militare porti a successi politici è però ancora tutto un altro discorso.
Questo breve conflitto ci può forse dare due lezioni, sulle quali vale la pena ragionare, in conclusione. La prima ha rilevanza militare, la seconda politica.
Dal punto di vista militare, si vede ancora una volta quanto l’addestramento, il force deployment, continui a rimanere un fattore fondamentale per vincere i conflitti moderni, con buona pace dei visionari che vedono conflitti determinati solo dalla tecnologia.
Per quanto riguarda invece la politica, appare sempre più chiaro quando il conflitto israelo-arabo-palestinese stia diventando insostenibile per gli Israeliani. Nel 2000 Israele ha lasciato il Libano. Nel 2006 ha dovuto attaccare il Libano per difendere la sua sicurezza. Nel 2005, Israele ha lasciato Gaza, nel 2008/2009 ha dovuto riattaccarla per difendere la sua sicurezza. Né il ritiro né l’attacco danno risposte definitive.E comunque, anche questa operazione non sarà in grado di annientare la minaccia proveniente da Gaza. Israele deve dunque pensare ad una sintesi – se ne esiste una – di queste due finora infruttifere risposte. Se può consolare, il genere umano la cerca da quando ha iniziato a fare la guerra e non la ancora trovata.
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Letture consigliate
Stephen D. Biddle, Afghanistan and the Future of Warfare, Implications for Army and Defense Policy (Carlisle, PA: Strategic Studies Institute, 2002) – per comprendere le difficoltà incontrate dagli americani contro i membri, altamente addestrati, di al-Qaeda.
Stephen D. Biddle, Military Power: Victory and Defeat in Modern War (Princeton: Princeton University Press, 2004) – per avere uno spaccato eccezionale della rivoluzione di fuoco in campo militari, e dei suoi effetti sulle guerre moderne. Paradossalmente, il primo effetto della rivoluzione di fuoco introdotta dai fucili mitragliatori è stato dare nuova importanza al fattore umano.
Stephen D. Biddle, “Speed Kills? Reassessing the Role of Speed, Precision and Situation Awarness in the Fall of Saddam,” Journal of Strategic Studies, Vol. 30, No. 1 (February 2007): 3-46 – per comprendere come l’assenza di addestramento adeguato e in termini di dottrina abbia impedito alle truppe di Saddam di fronteggiare meglio l’invasione anglo-americana del 2003.
Uri Bash-Joseph, “Israel’s Military Intelligence Performance in the Second Lebanon War,” International Journal of Intelligence and CounterIntelligence, Vol. 20, No. 4 (December 2007): 583-601 – per comprendere gli errori di intelligence compiuti in Libano e soprattutto la pessima performance dei servizi segreti militari israeliani.
Avi Kober, “The Israel Defense Forces in the Second Lebanese War: Why the Poor Performance,” Journal of Strategic Studies, Vol. 31, No. 1 (February 2008): 3- 40 – per comprendere le ragioni strutturali e burocratiche degli errori commessi dall’IDF in Libano. In particolare, si evidenzia il progressivo eccessivo affidamento alla tecnologia da parte dell’IDF che ha portato ad una sorta di delirio di onnipotenza dentro la struttura militare – la quale infatti pensava, semplicemente grazie alla sua superiorità tecnologica, di poter raggiungere qualsiasi obiettivo politico.
Stephen D. Biddle and Jeffrey A. Friedman, The 2006 Lebanon Campaign and the Future of Warfare: Implications for Army and Defense Policy (Carlisle, PA: Strategic Studies Institute, 2008) – per comprendere le ragioni del successo di Hizbullah.
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