di Mauro Gilli
Spesso, a forza di ripetere una storia, ci si convince che sia vera. E’ quello che è successo negli ultimi anni per quanto riguarda la liberazione degli ostaggi americani rapiti in Iran dopo la rivoluzione khomeinista del 1979. Stando alle interpretazioni di alcuni opinionisti, il regime di Teheran avrebbe liberato i 52 ostaggi americani per via del timore che la nuova amministrazione guidata da Ronald Reagan potesse rispondere in modo duro al torto subito. Secondo questa vulgata, prima ancora che Reagan alzasse un dito (la liberazione avvenne proprio pochi minuti dopo che Reagan assumesse la carica di Presidente degli Stati Uniti), gli ayatollah, spaventati da cosa potesse capitare loro, si sarebbero fatti prendere dalla paura, e avrebbero deciso di venire a più miti consigli.
Questa interpretazione è comparsa qualche anno fa in un articolo di Norman Podhoretz pubblicato su Commentary, e ripubblicato in Italia da Il Foglio. Su L’Occidentale, Barry Rubin ha riproposto questa sgangherata tesi. Non vogliamo annoiare i lettori sull’importanza di non confondere relazioni causali con semplici correlazioni. Ci sia permesso di dire, però, che attribuire a Reagan un risultato come la liberazione degli ostaggi, avvenuto in contemporanea con il suo giuramento, dà al defunto presidente i requisiti per qualificarsi per la beatificazione.
Se Podhoretz e Rubin avessero ragione, ciò significherebbe che mostrare i muscoli porta a casa dei risultati. Purtroppo, la storia non è solo diversa, è anche totalmente opposta. Gli ostaggi furono liberati per il semplice fatto che l’Iran e gli Stati Uniti – ancora sotto la presidenza di Jimmy Carter – firmarono un accordo, il 19 gennaio 1981 (il giorno prima che Reagan diventasse presidente), con il quale le due parti si impegnavano, per quanto riguarda gli Stati Uniti, a non intervenire più negli affari interni iraniani e a scongelare gli assett finanziari iraniani che erano stati bloccati dopo la rivoluzione del ’79; e per quanto riguarda il regime di Teheran, nel liberare gli ostaggi (qui il testo dell’accordo). Con la morte dello Shah (nel 1980), era venuta meno la principale ragione per cui il personale dell’ambasciata era stato preso in ostaggio. L’unica questione rimasta in sospeso era quella dei capitali iraniani bloccati negli Stati Uniti. Affrontando questa controversia, il trattato del 19 gennaio eliminò l’ultimo ostacolo al rilascio degli ostaggi americani – che, ad un anno dall’inizio della guerra con l’Iraq, erano intanto diventati un pesante fardello politico per il regime di Teheran. Non ci fu dunque nessuna “evidente” paura – come invece ha scritto Podhoretz – che “il nuovo presidente, falco in politica estera, potesse lanciare un attacco militare”, ma un semplice accordo.
Non solo: quando, tre anni più tardi l’Amministrazione Reagan si trovò di nuovo di fronte ad un nuovo rapimento di cittadini americani, questa volta in Libano, essa diede prova di tutto tranne che dell’inflessibilità di cui Podhoretz e Rubin tessono le lodi. Infatti, non solo Reagan arrivò ad usare proprio l’Iran – allora nemico degli USA – come canale per la liberazione degli ostaggi. Reagan arrivò addirittura ad approvare la vendita di armi ad all’Iran (punto di partenza del futuro scandalo “Iran-contras” volto a finanziare la guerriglia in Nicaragua). (richiederebbe un altro articolo soffermarsi su questa vicenda. Ci limitiamo a suggerire ai lettori di leggere i nomi dei principali personaggi coinvolti per trovare con sorpresa molti “volti noti”).
Forse Rubin e Podhoretz riescono ancora a vedere in queste azioni una politica muscolare, e ferma nel non volere cedere a patti col nemico. Certamente, ciò richiede una certa dose di immaginazione.
Prima di concludere, è utile sottolineare le contraddizioni di questi due autori. Podhoretz, dopo aver presentato questa tesi nel 2002, ha cambiato idea, finendo per criticare duramente proprio l’amministrazione Reagan per essere stata “debole” verso l’islamofascismo (si veda il suo The Fourth World War). Nel 2002 Reagan era un duro, cinque anni più tardi sarebbe diventato un debole. Chissà quale dei due Podhoretz aveva ragione…
Non meno contraddittorio è Rubin quando cita Gates, per il quale non esisterebbe un “iraniano moderato”. A Rubin deve essere sfuggito, proprio Gates, insieme a Zbigniew Brzezinski, ha scritto un rapporto dall’eloquente titolo: Iran: Times for a New Approach. Il “new approach” di cui gli autori parlavano consisteva, neanche a dirlo, nell’intavolare negoziati con il regime iraniano. Non è una coincidenza che Brzezinski, consigliere per la campagna elettorale di Obama, si sia mosso in questo senso negli ultimi mesi. Rubin sembra confondere la retorica preelettorale di Gates (volta a screditare proprio la promessa di Obama di “parlare” con l’Iran) con le analisi serie.
E’ una pratica assai diffusa quella di definire ogni tentativo diplomatico con i nemici un nuovo “appeasement” . In più, sostenere l’uso della forza, sempre e comunque (vuoi per l’Iraq, per la Nord Corea, o per l’Iran, o per qualsiasi crisi internazionale che si presenta) viene spesso interpretato come indicativo di forti credenziali in politica estera. Sfortunatamente, queste risposte semplici, nella maggior parte dei casi sono dettate da una conoscenza della storia assai limitata, e da una comprensione degli affari internazionali del tutto superficiale. Lasciamo ai lettori il giudizio finale.
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